E mentre il sapore gli si diffondeva nell'esofago, il mondo intorno a loro vacillò. Lupo esclamò: «Jacky, funziona!».

La reazione del compagno distrasse Jack dalla sua intensa concentrazione e per un momento ebbe la netta impressione che fosse solo un trucco, come quando si cerca di dormire contando le pecore. Il mondo intorno a lui cessò di vibrare. Tornò l'odore di disinfettante. Sentì qualcuno che rispondeva al telefono con voce lagnosa: «Sì, pronto, chi è?».

Non è un trucco, non è affatto un trucco, è una magia. È una magia e io l'ho già utilizzata quand'ero piccolo e posso farlo di nuovo, così disse Svelto e così disse anche Snowball, il cantante cieco. Il succo magico è nella mia mente...

Si tuffò con tutte le sue forze, mettendoci tutta la sua volontà... e la facilità con cui flipparono ebbe dello stupefacente, come un pugno indirizzato contro una parete di granito la quale invece di fracassarti tutte le nocche cede docilmente perché in realtà è di cartapesta.

 

4

 

Jack teneva gli occhi strettamente chiusi. Sentì il pavimento che gli si sgretolava sotto i piedi... e poi scompariva del tutto.

Oh merda, cadiamo lo stesso, pensò sconcertato.

Ma non fu una vera caduta. Si trattò di una piccola sbandata. Un attimo dopo sotto i suoi piedi e quelli di Lupo al posto delle piastrelle del bagno c'era suolo compatto.

Furono investiti da un tanfo in cui si mescolava zolfo con quello che sembrava liquame fresco. Era un odore di morte e Jack pensò che significasse la fine di ogni speranza.

«Giasone! Ma che odore è?» gemette Lupo. «Oh Giasone, quest'odore. Non posso restare qui, Jacky, non posso...»

Jack aprì gli occhi di scatto. Nello stesso istante Lupo gli lasciò andare le mani e s'incamminò alla cieca, con gli occhi ancora chiusi. Jack vide che indossava nuovamente la tuta con pettorina che aveva avuto quando l'aveva conosciuto come pastore. Gli occhiali da John Lennon erano scomparsi e...

...e Lupo stava avanzando barcollando verso il ciglio di un precipizio a meno di un metro da loro.

«Lupo!» Si lanciò verso di lui e lo afferrò per la vita. «Lupo, no!»

«Jacky, non posso restare», esclamò di nuovo Lupo. «È un Pozzo, uno dei Pozzi, è stato Morgan a fare questi posti. Oh, ho sentito che è stato Morgan a farli, sento l'odore...»

«Lupo, c'è uno strapiombo, cadrai!»

Lupo aprì gli occhi. Gli si spalancò la bocca nel vedere il crepaccio fumigante che si apriva davanti ai suoi piedi. Nel fondo scuro ammiccava un fuoco rosso come un occhio infetto.

«Un Pozzo», gemette Lupo. «Oh, Jacky, è un Pozzo. Laggiù ci sono i forni del Cuore Nero. Il Cuore Nero al centro del mondo. Non posso restare, Jacky, non c'è posto peggiore di questo.»

La prima lucida considerazione che fece Jack in quel momento, fermo con lui sul ciglio del Pozzo a contemplare l'inferno o il Cuore Nero al centro del mondo, fu che geograficamente i Territori e l'Indiana non avevano corrispondenza precisa. Nella Casa del Sole non esisteva un luogo che corrispondesse a questa voragine, a questo orribile Pozzo.

Un metro più a destra, pensò Jack con un moto d'orrore. Sarebbe bastato... un metro più a destra. E se Lupo avesse fatto come io gli avevo detto...

Se Lupo avesse fatto come Jack gli aveva detto sarebbero flippati dal primo box dei gabinetti e in questo caso sarebbero arrivati nei Territori oltre il ciglio della voragine.

Gli cedettero le ginocchia. S'aggrappò nuovamente a Lupo, questa volta per sorreggersi.

Lupo lo trattenne con aria assente, gli occhi sgranati e brillanti d'arancione. La sua espressione era un misto di smarrimento e paura. «È un Pozzo, Jacky.»

Sembrava la vasta miniera a cielo aperto che aveva visitato con sua madre quando erano stati nel Colorado in vacanza tre anni prima. Erano andati a Vail a sciare, ma avevano approfittato di una giornata di freddo troppo intenso per una gita in autobus alla miniera della Continental Minerals nei pressi della cittadina di Sidewinder. «Mi sembra di vedere Geenna, Jacky», aveva commentato sua madre, guardando dal finestrino appannato dell'autobus con un'espressione triste e remota. «Vorrei che li chiudessero, questi posti, dal primo all'ultimo. Scavano dal cuore della terra fuoco e distruzione. È proprio Geenna.»

Volute dense e soffocanti di fumo salivano dalle profondità del Pozzo. Nelle pareti correvano le vene di uno sconosciuto e velenoso metallo verde. Il crepaccio era largo forse un chilometro. Una strada scendeva a spirale nelle pareti. Su questa strada Jack vedeva esseri che salivano e scendevano.

Era una sorta di prigione, proprio come la Casa del Sole era un carcere e questi erano prigionieri e guardiani. I prigionieri erano nudi, bardati in coppie a trainare carretti come rickshaw, carretti carichi di enormi blocchi di quella terra minerale verde e dall'aspetto unto. Le loro facce erano scavate e tese, rappresentazioni di dolore intagliate nel legno grezzo. Erano annerite di fuliggine. Erano segnate da lunghe e tumefatte scorticature rosse.

Poi Jack si accorse che i guardiani non erano umani. In nessun modo li si sarebbe potuti definire umani. Erano deformi e gobbi e avevano artigli al posto delle mani e orecchie appuntite. Ah, sono i mostri dei doccioni! pensò. Tutti quei mostri da incubo sulle cattedrali francesi... La mamma aveva un libro e io credevo che avremmo dovuto visitare tutte quelle che c'erano, ma lei interruppe il giro dopo che io ebbi un incubo e bagnai il letto. Allora è da qui che venivano? Qualcuno le aveva viste qui? Qualcuno flippato nei Territori durante il medioevo ha visto questo posto e ha creduto di aver avuto una visione dell'inferno?

Ma questa non era una visione.

I mostri erano armati di frusta e nel rumore sordo delle ruote e nel crepitare del terreno che si spaccava al calore delle fiamme, Jack ne udiva gli schiocchi e i fischi. Una squadra di uomini sostò nei pressi della cima, con la testa china e i tendini del collo in vistoso rilievo e le gambe che tremavano per la fatica.

La mostruosità che li sorvegliava, una creatura contorta con un perizoma arrotolato attorno alle cosce e una fila irregolare di setole rigide che gli crescevano in corrispondeva delle vertebre lungo tutta la spina dorsale, calò la sua frusta prima sull'uno, poi sull'altro, strillando in una lingua cigolante che scagliò aghi di dolore nelle tempie di Jack. E Jack vide gli stessi terminali di metallo che decoravano la frusta di Osmond e prima di aver tempo di batter ciglio, un prigioniero ebbe un braccio squarciato e l'altro ebbe la base della nuca spappolata.

Gli uomini gridarono di dolore e curvarono la schiena ancora di più. Nella luce giallastra il loro sangue era di colore ancora più intenso. La creatura infernale strillava con il braccio a placche alzato a far roteare la frusta sulla testa degli schiavi. Con un ultimo sforzo disperato, i due derelitti trainarono il carretto al di sopra del ciglio. Uno dei due cadde in ginocchio sfinito e l'ultimo giro di ruota del carretto gli fece perdere l'equilibrio. Cadde in avanti e restò bocconi mentre le ruote gli montavano sulla schiena. Giunse alle orecchie di Jack il suono secco della spina dorsale che gli veniva spezzata. Fu come il colpo della pistola di uno starter.

Il mostro starnazzò di rabbia mentre il carretto vacillava e finalmente si coricava su un fianco rovesciando il suo carico sull'arido terreno attorno al Pozzo. In due falcate raggiunse il prigioniero caduto e alzò la frusta. In quell'istante l'uomo ormai morente girò la testa e guardò negli occhi Jack Sawyer.

Era Ferd Janklow.

Lo vide anche Lupo.

Si strinsero in un abbraccio frenetico.

E tornarono indietro.

 

5

 

Erano in un luogo angusto e chiuso, lo scomparto di un gabinetto, in effetti, e Jack non riusciva più a respirare stretto nell'abbraccio soffocante di Lupo. E aveva un piede fradicio. Chissà come era tornato in questo mondo con il piede nella tazza. Oh, stupendo. Cose così non capitano mai a Conan il Barbaro, rifletté.

«Jack no, Jack no, il Pozzo, era il Pozzo, no, Jack...»

«Smettila, Lupo! Siamo tornati indietro!»

«No, no, no...»

Lupo s'interruppe. Aprì lentamente gli occhi.

«Indietro?»

«Sicuro. Subito subito. E adesso lasciami andare che mi stai stritolando e ho il piede incastrato...»

La porta dei gabinetti fu spalancata rumorosamente. Urtò la parete di piastrelle con tanta violenza da mandare in frantumi il vetro smerigliato.

Subito dopo si spalancò la porta del box. Andy Warwick guardò dentro e pronunciò due parole colme di furore e di sdegno: «Luridi finocchi».

Afferrò Lupo per la camicia a scacchi e lo trascinò fuori. I calzoni di Lupo s'impigliarono nel coperchietto di metallo del portacarta strappandolo dal muro. Volò fuori e il rotolo di carta igienica si disfece per tutto il pavimento. Warwick spinse Lupo contro i lavandini che erano all'altezza giusta perché vi schiacciasse contro i genitali. Lupo cadde per terra con le mani premute sull'inguine.

Warwick si girò verso Jack e in quel momento apparve anche Sonny Singer. Fu lui ad afferrare Jack per lo sparato della camicia.

«Benissimo, schifoso...» cominciò Sonny e non riuscì ad andare oltre. Fin da quando erano arrivati in questo inferno, Sonny Singer aveva preso di mira Jack. Sonny Singer con la sua faccia buia e furba, che voleva tanto che somigliasse a quella di Gardener (il più presto possibile). Sonny Singer che con tanto affetto lo chiamava sempre moccioso. Sonny Singer al quale certamente si doveva la brillante idea di pisciargli nel letto.

Jack fece partire il destro e non nello stile un po' abborracciato di Heck Bast, bensì in un preciso diretto scattato dal gomito. Raggiunse Sonny al naso. Si udì uno scricchiolio. Jack provò un momento di soddisfazione così perfetto da essere sublime.

«Eccoti», esclamò. Tirò finalmente fuori il piede dalla tazza. Aveva un gran sorriso sulle labbra mentre inviava a Lupo un messaggio telepatico con tutta l'energia della sua mente:

Non ce la caviamo poi così male, Lupo, tu hai rotto la mano a un bastardo, io ho rotto il naso a un altro bastardo.

Sonny indietreggiò vacillando e urlando, con il sangue che gli colava dalle dita.

Jack uscì dal box con la guardia alzata. «Ti avevo detto di stare attento con me, Sonny. Adesso ti insegno io a dire hallelujah.»

«Heck!» strillò Sonny. «Andy! Casey! Correte!»

«Sonny, mi sembri impaurito», lo apostrofò Jack. «Non capisco perché...»

E poi qualcosa come una cascata di mattoni gli rovinò sul collo mandandolo a finire contro uno degli specchi sui lavandini. Se fosse stato di vetro, si sarebbe procurato qualche brutto taglio, ma qui tutti gli specchi erano di acciaio levigato. Non erano tollerati i suicidi alla Casa del Sole.

Jack riuscì ad alzare un braccio per smorzare un poco il colpo, ma era ancora stordito quando si voltò e vide Heck Bast che sorrideva. Lo aveva colpito con l'ingessatura della mano destra.

E mentre lo guardava, Jack capì e si sentì venir meno. Eri tu!

«Mi sono fatto un male boia», disse Heck tenendosi la mano ingessata nella sinistra, «ma ne valeva la pena, moccioso.» Venne avanti.

Eri tu! Tu frustavi a morte Ferd nell'altro mondo. Tu eri il mostro. Era il tuo Gemellante!

Un furore così cocente da sembrare vergogna invase Jack. Appena Heck gli fu a tiro, Jack si appoggiò con la schiena al lavandino, ne afferrò saldamente il bordo con le mani e lasciò partire un calcio a piedi uniti. Prese Heck Bast in pieno petto e lo scaraventò all'indietro nel box aperto. La scarpa che era tornata nell'Indiana incastrata nella tazza, lasciò una precisa impronta sul dolcevita bianco di Heck. Heck si sedette pesantemente sul water sollevando uno spruzzo. Il suo gesso echeggiò sulla porcellana.

Stava arrivando altra gente. Lupo cercava di rialzarsi. Aveva i capelli sugli occhi. Sonny gli si stava avvicinando tenendo sempre una mano sul naso sanguinante, con l'evidente intenzione di dargli un calcio.

«Bravo, provati a toccarlo, Sonny», lo ammonì quasi dolcemente Jack. Sonny si bloccò di colpo.

Jack prese Lupo per un braccio e lo aiutò. Si accorse come in un sogno che Lupo era tornato in questo mondo più peloso che mai. Non ce la fa più, la tensione per lui è insopportabile, sta scatenando una Muta estemporanea e Cristo da qui non c'è più modo di venirne fuori...

Indietreggiarono di fronte allo schieramento di Warwick, Casey, Pedersen, Peabody, Singer. Heck stava uscendo dal box in cui l'aveva spedito Jack e in questo momento Jack si accorse di un altro particolare. Erano partiti dal quarto, mentre Heck Bast stava uscendo dal quinto. Nell'altro mondo si erano spostati di quel tanto da farli ricomparire, in questo, in un box diverso.

«Si stavano inculando là dentro!» esclamò Sonny con la voce soffocata e nasale. «Il ritardato e il bel ragazzino! Io e Warwick li abbiamo sorpresi con l'uccello fuori!»

Le natiche di Jack toccarono piastrelle fredde. La fuga terminava lì. Lasciò andare Lupo che si accasciò, penosamente intontito. Alzò i pugni.

«Avanti», intimò. «Chi è il primo?»

«Vuoi farci fuori tutti?» gli chiese Pedersen.

«Se ci sarò costretto, lo farò», gli rispose Jack. «Che cosa avreste intenzione di farmi, di torturarmi nel nome di Gesù? Fatevi sotto.»

Un tremito d'indecisione sul volto di Pedersen. Un guizzo di autentica paura su quello di Casey. Si fermarono. Jack si sentì nascere dentro una stupida, ingiustificata speranza. Gli altri lo fissavano con l'esitazione di persone che osservano un cane impazzito che si può abbattere... ma che prima potrebbe straziare qualcuno con un grave morso.

«Fatevi da parte, ragazzi», ordinò una voce autorevole. Subito lo schieramento si aprì e la generale titubanza fu sostituita dal sollievo. Era il reverendo Gardener. Il reverendo Gardener avrebbe saputo come risolvere la situazione.

Venne avanti. Questa mattina indossava calzoni neri e una camicia bianca di raso con maniche ampie, quasi alla Byron. Teneva in mano il suo astuccio nero.

Contemplò Jack e sospirò. «Sai che cosa dice la Bibbia dell'omosessualità, Jack?»

Jack gli mostrò i denti.

Gardener annuì tristemente come se se lo fosse aspettato.

«Be', tutti i ragazzi sono cattivi», sentenziò. «È assiomatico.»

Aprì l'astuccio. L'ago scintillò.

«Io credo che tu e il tuo amico abbiate fatto qualcosa di molto peggio che un atto di sodomia, però», riprese Gardener nel suo tono pastoso e rammaricato. «Come andare in posti che è meglio lasciare a gente più adulta e meritevole.»

Sonny Singer e Hector Bast si scambiarono un'occhiata perplessa.

«Io credo che parte di questa cattiveria... di questa perversità... sia per colpa mia.» Tirò fuori la siringa, la guardò e poi prese una fiala. Consegnò l'astuccio a Warwick e riempì la siringa. «Non ho mai creduto che fosse giusto costringere i miei ragazzi a confessare, ma senza confessione non è possibile prendere la strada di Cristo e se non si prende la strada di Cristo, il male continua a crescere. Pertanto, benché ne sia profondamente addolorato, ritengo che il tempo delle domande sia finito e che sia giunto il tempo delle pretese nel nome di Dio. Pedersen. Peabody. Warwick. Casey. Teneteli!»

I ragazzi scattarono in avanti al suo comando come cani ammaestrati. Jack riuscì a colpire una volta Peabody prima di trovarsi le mani imprigionate.

«Me lo lasci bestare», gridò Sonny con la sua nuova voce smorzata. Sgomitò per venire avanti fra i ragazzi che si accalcavano per assistere alla scena. I suoi occhi brillavano di odio. «Lo voglio bestare!»

«Non ora», disse Gardener. «Forse in un altro momento. Pregheremo per questo, non è vero, Sonny?»

«Sì.» La luce che aveva negli occhi era diventata febbrile. «Bregherò duddo il giorno.»

Come un uomo che finalmente si sveglia dopo una lunga dormita, Lupo si guardò attorno e grugnì. Vide che Jack era trattenuto. Vide l'ago ipodermico e staccò da Jack il braccio di Pedersen come se fosse stato il braccio di un neonato. Dalla gola gli scaturì un ruggito tonante.

«No! Lascialo andare!»

Con quella camminata elastica simile a una danza, Gardener avanzò su Lupo, ricordando a Jack, nella grazia delle movenze, Osmond che si avventava sul carrettiere nel cortile fangoso. L'ago saettò e affondò nella carne. Lupo ruotò su se stesso muggendo come se fosse stato punto... il che, in un certo senso, era proprio quello che gli era successo. Cercò di afferrare la siringa, ma Gardener lo schivò destramente.

I ragazzi che finora avevano fatto da spettatori nel tipico atteggiamento imbambolato della Casa del Sole, adesso fecero ressa per allontanarsi, spaventati. Nessuno desiderava finire vittima della collera di Lupo.

«Lascialo andare! Lascialo... andare...»

«Lupo!»

«Jack... Jacky...»

Lupo lo guardò con gli occhi annebbiati che, come uno strano caleidoscopio, passavano dal color nocciola all'arancione e poi a un rosso opaco. Alzò le mani pelose verso Jack e in quel momento Hector Bast gli si avvicinò alle spalle e lo tramortì con un colpo.

«Lupo! Lupo!» Gli occhi di Jack erano umidi di lacrime di furore. «Se l'hai ammazzato, figlio di puttana...»

«Ssst, signorino Jack Parker», gli bisbigliò all'orecchio Gardener e Jack si sentì pungere dall'ago al braccio. «Adesso fai silenzio. Daremo un po' di luce alla tua anima. E poi può darsi che vedremo come te la cavi a tirare un carretto carico su per la strada a spirale. Ripeti con me hallelujah.»

Quest'ultima parola lo seguì nel suo viaggio nell'oblio.

Hallelujah... Hallelujah... Hallelujah...

 

26

Lupo in gabbia

 

1

 

Jack era già sveglio molto prima che si accorgessero che era già sveglio, ma solo per gradi ritrovò coscienza di chi era, di che cosa era accaduto e di quale fosse la sua situazione. In un certo senso era come un soldato sopravvissuto a un violento e prolungato sbarramento di artiglieria. Gli doleva il braccio dove Gardener gli aveva conficcato l'ago ipodermico. La testa gli faceva così male che gli pareva che gli pulsassero le palle degli occhi. La sete era lancinante.

Avanzò di un altro grado di consapevolezza quando cercò di toccarsi con la mano sinistra il punto dove gli faceva male sul braccio destro. Non poté. E il motivo per cui non gli fu possibile è che aveva le braccia costrette attorno al corpo. Percepiva un odore di tela vecchia e ammuffita, l'odore di una tenda da boyscout ritrovata in una soffitta dopo molti anni di abbandono. Solo a questo punto (sebbene la guardasse imbambolato fra le ciglia degli occhi quasi totalmente chiusi ormai da una decina di minuti) capì che cosa indossava. Era una camicia di forza.

Ferd ci sarebbe arrivato più alla svelta, Jacky, pensò, e il ricordo di Ferd ebbe l'effetto di rischiarare la sua mente nonostante la terribile emicrania. Si mosse impercettibilmente e le fitte di dolore alla testa e le pulsazioni nel braccio gli strapparono un gemito. Non poté trattenersi.

Heck Bast: «Si sta svegliando».

Reverendo Gardener: «No. Gli ho dato una dose sufficiente a paralizzare un alligatore. Resterà privo di sensi fino alle nove di questa sera come minimo. Sta solo sognando. Heck, voglio che tu vada su ad ascoltare le confessioni dei ragazzi, stasera. Avverti che non ci sarà la riunione in cappella. Devo andare all'aeroporto e sarà solo l'inizio di una nottata probabilmente lunga. Sonny, tu resta qui e aiutami con la contabilità».

Heck: «Eppure secondo me si stava svegliando».

Gardener: «Vai, Heck e manda Bobby Peabody a controllare Lupo».

Sonny (ridacchiando): «Non gli piace molto stare là dentro, vero?».

Ah, Lupo, ti hanno rimesso nella gabbia, pianse in cuor suo Jack. Perdonami... è stata colpa mia... tutta colpa mia...

«Coloro che sono destinati all'inferno raramente prestano attenzione alle vie della salvezza», pontificò Gardener. «Quando i demoni che hanno dentro cominciano a morire, se ne vanno urlando. Vai adesso, Heck.»

«Subito, reverendo Gardener.»

Jack sentì Heck che usciva, ma non lo vide. Non osava ancora aprire gli occhi.

 

2

 

Imprigionato in quel rudimentale scatolone metallico che era la gabbia, come un sepolto vivo in una bara di ferro, Lupo trascorse la giornata sgolandosi, tempestando di pugni le pareti fino a farsi sanguinare le mani, sferrando calci alla porta a doppio chiavistello simile a un coperchio di pentola a pressione, finché le scariche di dolore che gli risalivano le gambe non gli ebbero invaso i genitali. Non sarebbe riuscito a uscire a suon di pugni e di calci, questo lo sapeva, come del resto sapeva benissimo che non lo avrebbero liberato solo perché lo invocava a gran voce. Ma non poteva farci niente. Sopra ogni cosa Lupo detestava essere rinchiuso.

Le sue grida echeggiavano nei paraggi della Casa del Sole e arrivavano persino ai campi più vicini. I ragazzi che le udivano si scambiavano occhiate nervose e tenevano la bocca chiusa.

«L'ho visto al gabinetto, questa mattina, e ho visto quando gli ha preso la crisi», confidò Roy Owdersfelt a Morton con voce sommessa e apprensiva.

«Se la stavano facendo insieme, come ha detto Sonny?» domandò Morton. Un altro ululato si alzò dalla scatola di ferro ed entrambi i ragazzi si girarono a guardare.

«Eccome!» rispose con entusiasmo Roy. «Io non ho visto perché sono basso, ma Buster Oates che era proprio davanti a me ha detto che quel bestione ritardato ha una mazza grossa come la canna di un idrante. Così ha detto.»

«Gesù!» mormorò rispettosamente Morton, pensando forse alla sua mazza sottomisura.

Lupo ululò tutto il giorno, ma quando il sole cominciò a scendere all'orizzonte, smise. I ragazzi trovarono questo inaspettato silenzio sinistro. Si guardavano spesso, e ancora più spesso e con maggiore irrequietudine guardavano in direzione della gabbia al centro di uno spazio diserbato nel cortile della Casa.

La gabbia era lunga due metri e alta solo uno e, a parte l'apertura tagliata alla bell'e meglio in una parete e protetta da una fitta rete metallica, somigliava in tutto e per tutto a una bara di ferro. Che cosa stava succedendo là dentro? si domandavano. E persino durante la confessione, una ricorrenza che normalmente elevava tutti i ragazzi a uno stato di rapimento, addormentando in loro ogni altra considerazione, gli occhi continuarono a girarsi verso l'unica finestra della stanza comune, benché essa fosse rivolta in direzione diametralmente opposta a quella dove si trovava la gabbia.

Che cosa succede là dentro?

Hector Bast si accorse che erano distratti e ne fu esasperato, tuttavia non riuscì a sollecitare la loro concentrazione perché non capiva di preciso quale fosse lo stato d'animo della comunità. I ragazzi della Casa erano presi dalla morsa di un gelido presagio. Erano più pallidi che mai, i loro occhi scintillavano come occhi di un tossicodipendente accanito.

Che cosa succede là dentro?

Quello che succedeva era abbastanza semplice.

Lupo andava con la luna.

Lo sentì accadere quando il rettangolo di luce che si rifletteva all'interno della sua prigione attraverso l'apertura per la ventilazione cominciò a salire, sempre più su, passando dal giallo al rosso. Era ancora troppo presto per andare con la luna; essa non era ancora del tutto gravida e lui ne avrebbe sofferto. Ma sarebbe successo come sempre succede ai Lupi, anche fuori stagione, quando vengono tenuti troppo a lungo sotto pressione. Per molto tempo Lupo si era controllato, perché così aveva desiderato Jacky. In questo mondo non aveva lesinato atti di eroismo per Jack. Di alcuni Jack avrebbe vagamente sospettato, ma mai sarebbe andato vicino a coglierne le incredibili profondità e passioni.

Ora stava morendo e stava andando con la luna e poiché questa seconda realtà rendeva sopportabile la prima, quasi santa e persino predestinata, Lupo partiva sereno, partiva contento. Era magnifico non dover più lottare.

La sua bocca, improvvisamente piena di zanne.

 

3

 

All'uscita di Heck seguirono rumori da ufficio, lo strofinare di gambe di sedia sul pavimento, il tintinnare delle chiavi appese alla cintura di Gardener, il cassetto di uno schedario che veniva aperto e richiuso.

«Abelson. Duecentoquaranta dollari e trentasei centesimi.»

Rumori di tastiera. Peter Abelson era uno degli addetti al servizio esterno. Come i suoi compagni era brillante, dotato di bella presenza, privo di difetti fisici.

«Clark. Sessantadue dollari e diciassette centesimi.»

Tastierizzazione. La calcolatrice rumoreggiò quando Sonny schiacciò il totale.

«Che crollo», commentò Sonny.

«Gli parlerò, non temere. Ma non distrarmi con le tue chiacchiere, Sonny. Sloat arriva a Muncie alle dieci e un quarto e c'è un bel pezzo di strada. Non voglio fare tardi.»

«Mi scusi, reverendo Gardener.»

Gardener replicò con qualche parola che Jack non udì nemmeno. Al sentire il nome di Sloat era stato travolto dal panico. Eppure non era del tutto sorpreso. Da tempo qualcosa gli diceva che il destino avrebbe potuto riservargli questa prospettiva. Gardener era stato diffidente fin dal principio. Jack reputava che non avesse voluto disturbare il suo principale con problemi di ordinaria amministrazione o forse non voleva ammettere di non essere capace di sapere la verità senza aiuto. Alla fine aveva telefonato. Dove? A est o a ovest? Molto avrebbe dato Jack in quel momento per saperlo. Avevano trovato Morgan a Los Angeles o nel New Hampshire?

Pronto, buongiorno, signor Sloat. Spero di non disturbarla, ma la polizia locale mi ha consegnato un ragazzo. Per dire la verità sono due, ma quello che mi interessa è quello sveglio. Mi pare di conoscerlo. O forse è il mio... bah, diciamo il mio altro io a conoscerlo. Dice di chiamarsi Jack Parker, ma... come? Vuole che glielo descriva? Dunque...

E la bolla era scoppiata.

Non distrarmi con le tue chiacchiere, Sonny. Sloat arriva a Muncie alle dieci e un quarto...

Il tempo era quasi scaduto.

Te l'avevo detto di filartene a casa, Jack... ormai è troppo tardi.

Tutti i ragazzi sono cattivi. È assiomatico.

Jack sollevò la testa di pochi millimetri per guardare. Gardener e Sonny Singer sedevano insieme alla scrivania. Sonny batteva su una calcolatrice i numeri che gli riferiva Gardener, ciascuno corrispondente a un nominativo delle squadre in servizio esterno, in perfetto ordine alfabetico. Davanti a Gardener c'erano un registro, un cassetto metallico da schedario e una fila disordinata di buste. Quando Gardener ne prese una fra le mani per leggere l'entità della somma scritta all'esterno, Jack ne vide il dorso. C'era il disegno di due bambini felici, ciascuno con la sua Bibbia, in cammino verso una chiesa, mano nella mano.

«Temkin. Centosei dollari.»

La busta finì nel cassetto con le altre registrate.

«Io dico che ha scremato di nuovo», commentò Sonny.

«Dio conosce la verità, ma aspetta», rispose in tono pacato Gardener. «Victor è un ragazzo a posto. Adesso chiudi il becco e vediamo di finire prima delle sei.» Sonny riprese a battere le cifre sulla calcolatrice.

Il ritratto di Gesù che camminava sulle acque era stato fatto ruotare su un cardine. Dietro di esso si trovava una cassaforte il cui sportello era in questo momento aperto.

Jack notò che c'erano altri oggetti interessanti sulla scrivania del reverendo Gardener: due buste, l'una marcata JACK PARKER e l'altra PHILIP JACK LUPO, e il suo buon vecchio zaino.

Poi c'era il mazzo di chiavi di Gardener.

Dalle chiavi gli occhi di Jack si spostarono sulla porta che si trovava sulla sinistra, l'uscita secondaria privata di Gardener. Se solo avesse trovato il modo...

«Yellin. Sessantadue dollari e diciannove centesimi.»

Gardener sospirò. Ripose l'ultima busta nel lungo cassetto metallico e richiuse il suo registro.

«Sembra che Heck avesse ragione. Mi pare che il nostro caro amico signorino Jack Parker si sia svegliato.» Si alzò, venne fuori da dietro la scrivania e si avvicinò a Jack. I suoi occhi folli e brumosi scintillarono. Si tolse l'accendino di tasca. Jack fremette di terrore. «Solo che non ti chiami affatto Parker, non è vero, mio caro ragazzo? Il tuo nome è Sawyer, non è vero? Oh, sì. Sawyer. E molto, molto presto verrà qui una persona che è particolarmente interessata a te.»

Gardener fece scattare il coperchio dell'accendino esponendo la rotella annerita e lo stoppino fuligginoso.

«La confessione è un toccasana per l'anima», bisbigliò accendendo la fiamma.

 

4

 

TUM.

«Che cosa è stato?» domandò Rudolph alzando la testa dai suoi forni. La cena, quindici grossi pasticci di tacchino, procedeva a meraviglia.

«Che cos'era che cosa?» chiese George Irwinson.

All'acquaio, dove stava pelando patate, Donny Keegan mandò il suo stentoreo singulto di riso.

«Io non ho sentito niente», disse Irwinson.

Donny rise di nuovo.

Rudolph gli scoccò un'occhiata di rimprovero. «Hai intenzione di non lasciare niente addosso a quelle patate, razza di idiota?»

TUM.

«Ecco, questa volta hai sentito, no?»

Irwinson si limitò a scuotere la testa.

Rudolph ebbe improvvisamente paura. Quei colpi venivano dalla gabbia che, per quel che gli era dato di sapere ufficialmente, conteneva nient'altro che fieno da asciugare. Sì, domani. Nella gabbia c'era quel ragazzone, quello di cui si diceva che fosse stato colto in atto di sodomia con il suo amico, il ragazzo che aveva cercato solo il giorno prima di corromperlo per fuggire. Dicevano che quel bestione aveva mostrato delle tendenze sadiche prima che Bast lo atterrasse... e c'era anche chi sosteneva che non avesse semplicemente rotto la mano a Bast, ma che gliel'avesse ridotta in poltiglia. Naturalmente erano tutte esagerazioni, non poteva essere altrimenti, tuttavia...

TUM!

Questa volta Irwinson si girò e a un tratto Rudolph decise che aveva bisogno di andare al gabinetto. E che magari sarebbe salito addirittura al terzo piano, già che c'era. E che magari si sarebbe trattenuto due o tre ore. Sentiva l'avvicinarsi di neri frangenti... molto neri.

TUM TUM!

Al diavolo i pasticci di tacchino.

Rudolph si slacciò il grembiule, lo gettò sul merluzzo salato che aveva immerso nell'acqua per la cena dell'indomani e si avviò verso la porta.

«Dove vai?» gli chiese Irwinson. La sua voce suonò troppo stridula. E tremante. Donny Keegan continuò a pelare furiosamente patate, riducendole dalle dimensioni di palle da baseball a quelle di palle da golf, lavorando alacremente con i capelli davanti agli occhi.

TUM! TUM! TUM TUM TUM!

Rudolph non rispose a Irwinson e all'altezza della seconda rampa di scale stava già quasi correndo. Erano tempi duri in Indiana, si stentava a trovare lavoro e Gardener pagava in contanti.

Tuttavia Rudolph aveva cominciato a chiedersi se non fosse giunta l'ora di cercarsi un nuovo lavoro; ripeti con me battiamocela da qui.

 

5

 

TUM!

Il chiavistello superiore di quella porta che sembrava un coperchio di pentola a pressione si spezzò in due. Per un momento ci fu uno spiraglio nero fra la gabbia e la sua porta.

Silenzio per qualche istante.

TUM!

Il chiavistello inferiore gemette, si piegò.

TUM!

Saltò.

La porta della gabbia si aprì cigolando sui grossi cardini di fabbricazione casalinga. Spuntarono due piedi enormi e ispidi, le piante all'infuori. Lunghe unghie affondarono nel terreno.

Lupo cominciò a scivolare faticosamente fuori.

 

6

 

Avanti e indietro la fiammella passava a pochi centimetri dagli occhi di Jack. Avanti e indietro. Avanti e indietro. Il reverendo Gardener sembrava l'incrocio fra un ipnotizzatore da palcoscenico e un attore veterano protagonista della biografia di un Grande Scienziato. Era buffo. Se non fosse stato terrorizzato, Jack si sarebbe messo a ridere. E forse avrebbe riso comunque.

«Ora ho qualche domandina per te e tu risponderai», disse Gardener. «Il signor Morgan potrebbe farsi rispondere direttamente. Oh, su questo non c'è alcun dubbio, ma io preferisco che non si debba prendere il disturbo. Dunque... da quanto tempo hai la capacità di migrare?»

«Non so di che cosa parla.»

«Da quanto tempo hai la capacità di migrare nei Territori?»

«Non so a che cosa allude.»

La fiamma si avvicinò.

«Dov'è il negro?»

«Chi?»

«Il negro, il negro!» strillò Gardener. «Parker. Parkus, o comunque si faccia chiamare! Dov'è?»

«Non so di chi sta parlando.»

«Sonny! Andy!» gridò Gardener. «Liberategli la mano sinistra. Tenetegliela per me.»

Warwick si chinò sulla spalla di Jack e fece qualcosa. Un attimo dopo gli slacciarono la mano da dietro la schiena. Il braccio gli si risvegliò formicolando. Jack cercò di opporsi, ma fu inutile. Gli afferrarono saldamente la mano.

«Apritegli le dita.»

Sonny gli divaricò mignolo e anulare e Warwick gli tirò indice e medio dall'altra parte. Un attimo dopo Gardener applicò la fiamma dell'accendino alla membrana alla base della V che si era creata. Il dolore fu intensissimo e gli risalì come una scarica al braccio sinistro riempiendogli tutto il corpo. Si diffuse nell'aria un odore dolciastro di carne bruciata. La sua. Che andava a fuoco. La sua.

Dopo un'eternità Gardener tolse l'accendino e lo richiuse. Gocce minuscole di sudore gli imperlavano la fronte. Ansimava.

«I demoni urlano prima di venire fuori», sentenziò. «Oh, sì che urlano. Non è vero, ragazzi?»

«Sì, e sia lodato il Signore», rispose Warwick.

«Lei ha piantato quel chiodo», ribatté Sonny.

«Oh, lo so. Lo so molto bene. Conosco i segreti di ragazzi e di diavoli.» Con un risolino Gardener avvicinò la faccia a due centimetri da quella di Jack. Il nauseante odore della sua colonia riempì il naso di Jack. Per quanto terribile, lo trovò comunque molto migliore di quello della sua carne bruciata. «Ora, Jack. Da quanto tempo migri? Dov'è il negro? Quanto di tutto questo sa tua madre? A chi l'hai raccontato? Che cosa ti ha raccontato il negro? Cominceremo da qui.»

«Non so di che cosa sta parlando.»

Gardener scoprì i denti in un ghigno. «Ragazzi, l'anima di questo vostro compagno non è ancora abbastanza illuminata. Legategli il braccio sinistro e slacciategli il destro.»

Gardener aprì nuovamente il suo accendino e aspettò con il pollice posato lievemente sulla rotella zigrinata.

 

7

 

George Irwinson e Donny Keegan si trovavano ancora in cucina.

«Là fuori c'è qualcuno», disse George innervosito.

Donny non parlò. Aveva finito di pelare le patate e adesso si era messo davanti ai forni per stare al caldo. Non sapeva che cos'altro fare. Di là erano in corso le confessioni, questo lo sapeva, e gli sarebbe piaciuto andarci perché quello era un posto sicuro mentre qui in cucina si sentiva molto, molto sulle spine. Però Rudolph non li aveva ancora congedati. Meglio restare qui.

«Ho sentito qualcuno», insisté George.

Donny rise: «Yuk! Yuk! Yuk!».

«Gesù, quel tuo modo di ridere mi fa venire il mal di mare», recriminò George. «Ho un nuovo fumetto sotto il materasso. Se dai un'occhiata fuori te lo lascio leggere.»

Donny scrollò la testa e ragliò di nuovo.

George girò gli occhi verso la porta. Rumori. Qualcuno grattava. Qualcosa del genere. Unghie che grattano la porta. Come un cane che vuole entrare. Un cucciolo sperduto. Ma quale cucciolo sperduto poteva grattare in cima alla porta, che era alta due metri?

George andò a guardare dalla finestra. Non vedeva praticamente niente nell'oscurità. La gabbia era solo un'ombra più scura fra altre ombre.

George si diresse verso la porta.

 

8

 

Jack urlò così forte e con tanta violenza che credette di lacerarsi la gola. Adesso era intervenuto anche Casey, Casey con il suo pancione tremolante, ed era stato un bene per loro, perché adesso ci volevano almeno tre persone per tenerlo fermo, mentre Gardener gli applicava la fiamma alla mano.

Questa volta, quando Gardener interruppe il suo lavoretto, gli lasciò una macchia nera e ancora sfrigolante sul fianco della mano.

Gardener si alzò e andò a prendere la busta con scritto JACK PARKER. Ne tirò fuori il plettro.

«Che cos'è?»

«Un plettro per chitarra», riuscì a rispondere Jack. Il dolore alle mani gli ottenebrava il cervello.

«Che cos'è nei Territori?»

«Non so di che cosa parla.»

«Che cos'è questo?»

«Una biglia. Che cosa c'è, è cieco?»

«È un giocattolo nei Territori?»

«Non...»

«È uno specchio?»

«...so...»

«È una trottola che scompare quando la fai girare vorticosamente?»

«...di che cosa...»

«LO SAI! LO SAI BENISSIMO, MALEDETTA LARVA UMANA!»

«...sta parlando.»

Gardener gli assestò un manrovescio.

Tirò fuori il dollaro d'argento. Gli brillavano gli occhi.

«Che cos'è?»

«È un portafortuna che mi ha dato la zia Helen.»

«Che cos'è nei Territori?»

«Una scatola di fiocchi d'avena.»

Gardener gli mostrò l'accendino. «La tua ultima possibilità, ragazzo.»

«Si trasforma in vibrafono e suona Crazy Rhythm.»

«Voglio di nuovo la sua mano destra», sbottò Gardener.

Jack lottò, ma alla fine gli immobilizzarono il braccio.

 

9

 

Nei forni i pasticci di tacchino cominciavano a bruciare. George Irwinson era fermo vicino alla porta da cinque minuti a tentare di trovare il coraggio di aprirla. Quel rumore non si era ripetuto.

«Va bene, ti dimostrerò che non c'è niente di cui avere paura, vigliacco!» esclamò appassionatamente George. «Quando ci si sente forti nel nome del Signore, non c'è bisogno di aver paura.»

Dopo questa solenne dichiarazione, spalancò la porta. Una mastodontica sagoma villosa ingombrava la soglia guardandolo con occhi ardenti, color carminio, dal fondo delle orbite. Gli occhi di George seguirono il movimento di una zampa che si alzava nel buio autunnale e ventoso e si riabbassava di scatto. Artigli lunghi quindici centimetri scintillarono nella luce della cucina. Gli staccarono di netto la testa dal collo scagliandogliela attraverso la stanza. Fra schizzi di sangue la testa andò a urtare le scarpe di Donny Keegan che rideva, Donny Keegan che rideva come un matto.

Lupo balzò in cucina ricadendo sulle quattro zampe. Sorpassò Donny Keegan senza nemmeno guardarlo e corse nell'atrio.

 

10

 

Lupo! Lupo! Subito subito!

Era la voce di Lupo che echeggiava nella sua mente, questo sì, ma più profonda, più vibrante e autoritaria che mai. Fendeva la nebbia di dolore che gli oscurava la ragione come la lama tagliente di un coltello svedese.

Lupo corre con la luna, pensò. E si sentì invadere da un misto di trionfo e pena.

Gardener aveva gli occhi rivolti verso l'alto, socchiusi. In quell'attimo sembrò più animale che uomo, una bestia che aveva sentito il pericolo portato dal vento.

«Reverendo?» lo interpellò Sonny. Sonny ansimava lievemente e aveva le pupille degli occhi molto dilatate.

Si sta divertendo, rifletté Jack. Se mi metto a parlare, Sonny ci resterà male.

«Ho sentito qualcosa», rispose Gardener. «Casey. Vai ad ascoltare che cosa si sente venire dalla cucina e dalla stanza comune.»

«Subito.» Casey se ne andò.

Gardener tornò a guardare Jack. «Fra poco dovrò partire per Muncie», dichiarò, «e quando vedrò il signor Morgan desidero potergli dare immediatamente qualche informazione. Perciò è meglio che parli adesso, Jack. Che ti eviti altri tormenti.»

Jack lo guardava augurandosi che i colpi di maglio che dava il suo cuore non fossero troppo evidenti nella sua espressione e che nessuno avesse ad accorgersi del vistoso pulsare del suo collo. Se Lupo era uscito dalla gabbia...

Gardener prese in una mano il plettro che gli aveva regalato Svelto e nell'altra la moneta che gli aveva regalato il capitano Farren. «Che cosa sono?»

«Quando flippo, si trasformano in testicoli di tartaruga», rispose Jack, e rise sguaiatamente, istericamente.

Un'ombra di collera cupa calò sul volto di Gardener.

«Legategli di nuovo le braccia», ordinò a Sonny e Andy. «Legategli le braccia e poi tirate giù i calzoni di questo bastardo. Vediamo che cosa succede quando scaldiamo i suoi testicoli.»

 

11

 

Heck Bast non ne poteva più di confessioni, tanto le aveva già ascoltate tutte. Conosceva a memoria questi meschini peccati dispensati per corrispondenza. Ho rubato soldi dalla borsetta di mia madre, fumavo spini nel cortile della scuola, versavamo della colla in un sacchetto di carta e la sniffavamo...

Tutta roba da ragazzini. Niente di eccitante. Niente che distogliesse la sua mente dal dolore costante che avvertiva nella mano. Heck avrebbe potuto essere da basso a lavorarsi quel Sawyer. Poi sarebbe toccata a quel bestione ritardato che era riuscito a coglierlo di sorpresa e a fracassargli la mano destra. Sì, mettersi a lavorare a quel bisonte senza cervello sarebbe stato un vero piacere. Preferibilmente con un tagliabulloni.

Al momento stava recitando un ragazzo di nome Vernon Skarda.

«...allora io e lui, noi abbiamo visto che aveva le chiavi, capisci? Allora lui fa: "Saltiamo addosso a quella bagascia e facciamole la festa", lui dice. Ma io sapevo che non si doveva, e gliel'ho detto, allora lui fa: "Sei solo un cacasotto". Allora io dico: "Non sono un cacasotto". Così. Allora lui fa: "Dimostralo, dimostralo". "No, io non ci sto", faccio io, così lui va...»

Oh Cristo, pensò Heck. La mano stava veramente cominciando a urlare di dolore e aveva lasciato le sue pillole antidolorifiche di sopra. In fondo alla sala vide Peabody che si slogava le mascelle in un formidabile sbadiglio.

«Così giriamo dietro l'angolo e allora lui mi fa...»

La porta si spalancò spinta dall'esterno con tale violenza da esserne scardinata. Urtò il muro, rimbalzò, piombò su un ragazzo che si chiamava Tom Cassidy, lo fece cadere e lo intrappolò là sotto. Qualcosa si lanciò nella stanza comune e lì per lì Heck Bast pensò che fosse il più gigantesco fottuto cane che avesse mai visto. Urla si levarono dai ragazzi che schizzarono dalle loro sedie... e restarono paralizzati, gli occhi strabuzzati e increduli, all'ergersi della fiera color grigio scuro in cui si era trasformato Lupo, con brandelli di calzoni e di camicia a scacchi che ancora gli pendevano dal corpo.

Vernon Skarda lo contemplava con gli occhi sgranati e la bocca spalancata. Lupo ruggì folgorando i ragazzi con lo sguardo. Pedersen si gettò verso la porta. Lupo, che con la testa sfiorava quasi il soffitto, si mosse con stupefacente agilità. Ruotò un braccio grosso come una trave. Gli artigli scavarono un solco nella schiena di Pedersen. Per un attimo la sua spina dorsale fu perfettamente visibile, simile a un cavo di prolunga insanguinato. Schizzi di sangue colpirono le pareti. Pedersen avanzò di un gran passo vacillante e stramazzò nell'atrio.

Lupo si girò... e i suoi occhi abbacinanti si fermarono su Heck Bast. Heck si alzò all'improvviso su gambe cedevoli, lo sguardo fisso su quell'orribile creatura ispida e con gli occhi rossi. Sapeva chi era... o almeno chi era stato.

Avrebbe dato qualsiasi cosa al mondo in quel momento per essere ancora annoiato.

 

12

 

Jack era nuovamente seduto con le mani ustionate e pulsanti schiacciate contro il fondo della schiena. Sonny gli aveva riallacciato la camicia di forza stringendo con crudeltà, quindi gli aveva sbottonato i calzoni e glieli aveva spinti giù.

«Dunque», esordì Gardener, tenendo ben alto l'accendino perché Jack lo potesse vedere. «Ascoltami, Jack, e ascoltami bene. Ricomincerò a farti domande. E se non mi rispondi con sincerità, posso assicurarti che non correrai mai più il rischio di cadere nella tentazione di rapporti omosessuali.»

Sonny Singer trovò la battuta molto divertente e ridacchiò. I suoi occhi avevano assunto di nuovo quell'espressione mezza morta e appannata di godimento fisico. Guardava Jack con nauseante avidità.

«Reverendo Gardener! Reverendo Gardener!» Era Casey e sembrava preoccupato. Jack riaprì gli occhi. «Sta succedendo qualcosa di sopra.»

«Non voglio essere disturbato, adesso.»

«Donny Keegan è in cucina che ride come un deficiente! E...»

«Ha detto che non vuole essere disturbato in questo momento», lo interruppe Sonny. «Non hai sentito?»

Ma Casey era troppo spaventato per fermarsi. «Sembra che nella stanza comune sia scoppiata una rissa! Tutti che gridano! E sembrerebbe...»

Nella mente di Jack esplose all'improvviso un urlo di incredibile vitalità.

Jacky! Dove sei? Lupo! Dove sei subito subito?

«...che si sia scatenata una muta di cani!»

Adesso Gardener stava guardando Casey, gli occhi socchiusi, le labbra compresse.

Nell'ufficio di Gardener! Di sotto! Dove siamo già stati!

Sotto, Jacky?

Giù per le scale! Da basso, Lupo!

Subito subito!

La comunicazione fu sospesa. Lupo scomparve dalla sua mente. Dal piano di sopra giunsero un tonfo e un grido.

«Reverendo Gardener?» La faccia di Casey, normalmente sanguigna, era diventata bianca come un cencio. «Reverendo Gardener, che cos'è? Che cosa...»

«Zitto!» ringhiò Gardener e Casey rinculò come se fosse stato schiaffeggiato, con un considerevole tremito del doppio mento. Gardener andò alla cassaforte. Da essa tolse una grossa pistola che si infilò sotto la cintura. Era la prima volta che il reverendo Gardener sembrava spaventato e disorientato.

Qualcosa andò in frantumi al piano superiore e subito dopo si udì uno scricchiolio. Gli occhi di Singer, Warwick, Casey si alzarono nervosamente verso il soffitto. Sembravano profughi riparati in un rifugio antiaereo che tendevano l'orecchio ai fischi delle bombe.

Gardener guardò Jack. Un sorriso maligno affiorò sul suo volto e gli angoli della sua bocca guizzarono scompostamente come se fossero tirati da fili manovrati da un burattinaio non troppo abile.

«Verrà qui, vero?» disse Gardener. Annuì come se Jack gli avesse risposto. «Verrà qui... ma non credo che ne uscirà.»

 

13

 

Lupo balzò. Heck Bast fece a tempo a portarsi la mano destra ingessata davanti alla gola. Ci fu una vampata di dolore, un fragile schianto e l'alzarsi di una nuvoletta di polvere di gesso quando Lupo vi affondò le zanne... staccando dal polso i resti della mano fratturata. Heck si guardò stupidamente il moncherino. Dal polso gli sgorgavano fiotti di sangue. Gli inzuppavano il dolcevita bianco trasmettendogli vivo calore.

«Ti prego», gemette Heck. «Ti supplico, non...» Lupo sputò la mano. La sua testa scattò in avanti con la velocità di un serpente che attacca. Heck avvertì uno strattone, ma solo marginalmente. Lupo gli squarciò la gola, e da quel momento Heck non sentì più niente.

 

14

 

Mentre si precipitava fuori dalla sala comune, Peabody slittò nel sangue versato da Pedersen, cadde su un ginocchio, si rialzò, quindi corse per il corridoio del pianterreno più veloce che poté, vomitandosi addosso. I ragazzi correvano da tutte le parti, urlando di terrore. Il panico di Peabody non era invece completo. Ricordava che cosa era incaricato di fare in situazioni estreme, anche se non credeva che qualcuno avesse previsto una situazione estrema come questa; più probabilmente il reverendo Gardener aveva avuto in mente la possibilità che a qualche ragazzo girassero i cinque minuti e che nel corso di una rissa saltasse fuori un coltello o qualcosa del genere.

Dietro il salotto dove venivano condotti i nuovi ammessi alla Casa del Sole c'era un piccolo ufficio usato solo dagli energumeni che Gardener definiva i suoi "aiutanti studenti".

Peabody si chiuse a chiave in questa stanzetta, afferrò il ricevitore e chiamò un numero di emergenza. Pochi attimi dopo parlava a Franky Williams.

«Sono Peabody della Casa del Sole», si presentò. «Agente, deve correre qui con tutti gli uomini che riesce a trovare. È scoppiato l'inferno...» Da fuori gli giunse all'orecchio uno strillo lamentoso seguito dal fracasso di legno infranto. Poi un ruggito e lo strillo fu bruscamente interrotto.

«Faccia in fretta!» finì.

«Che genere di inferno?» domandò spazientito Williams. «Fammi parlare con Gardener.»

«Non so dove sia il reverendo, ma le assicuro che le direbbe la stessa cosa. Ci sono dei morti. Ragazzi morti.»

«Che cosa?»

«Venga subito, con tutti gli uomini che trova», ripeté Peabody. «E venite armati!»

Un altro urlo. Il tonfo di qualcosa di pesante, probabilmente il vecchio cassettone dell'atrio dell'ingresso che veniva rovesciato.

«Mitragliatrici, se le trovate.»

Il fragore di vetri del grande lampadario che cascava. Peabody rabbrividì. Sembrava che quel mostro stesse facendo a pezzi tutta la Casa a mani nude.

«Porti una bomba atomica, se può», disse ancora Peabody che cominciava a tartagliare.

«Che cosa...»

Peabody riagganciò prima che Williams avesse finito di parlare. S'infilò nel vano sotto la scrivania, si serrò la testa fra le braccia e cominciò a pregare con tutte le forze che fosse solo un sogno... il più fottuto incubo che avesse mai avuto.

 

15

 

Lupo scese al galoppo per il corridoio fra la sala comune e la porta d'ingresso, fermandosi solo per rovesciare il cassettone e poi per spiccare facilmente un salto e aggrapparsi al lampadario. Si dondolò come Tarzan finché lo strappò dal soffitto mandando diamanti di cristallo a disseminarsi per tutta la passatoia.

Di sotto. Jack ha detto che è sotto. Ora, sotto a che cosa? Un ragazzo che non era più in grado di sopportare la tensione dell'attesa spalancò l'antina dell'armadio in cui si era nascosto e cercò di lanciarsi verso le scale. Lupo lo afferrò e lo scagliò da una parte all'altra del corridoio. Il ragazzo cozzò contro la porta della cucina con il colpo secco di un osso che si spezza e si accartocciò su se stesso.

Lupo si sentì inebriare dall'odore del sangue fresco. La criniera gli pendeva collosa di grumi di sangue ai lati del muso. Cercò di fermarsi un attimo a pensare. Ma era difficile. Tanto difficile. Doveva trovare Jacky al più presto, adesso, prima di perdere totalmente la capacità di ragionare.

Corse verso la cucina, da dove era entrato, procedendo di nuovo a quattro zampe perché così si muoveva più celermente... e all'improvviso, passando davanti a una porta chiusa, ricordò: quel posto angusto. Era stato come scendere in una tomba. L'odore, denso e umido nella gola...

Di sotto. Dietro a quella porta. Subito subito!

«Lupo!» gridò, ma i ragazzi nei vari nascondigli del pianterreno e del primo piano udirono soltanto un ululato di trionfo. Lupo levò le due clave nerborute che aveva ora al posto delle braccia e le calò sull'uscio. Lo fracassò mandando un nugolo di schegge giù per le scale. Sì, pensava Lupo mentre entrava nello squarcio, qui c'è quel posto angusto, come una gola; qui è dove l'Uomo Bianco aveva raccontato le sue menzogne mentre Jack e il Lupo Indebolito avevano dovuto restare seduti ad ascoltare. Jack era là sotto. Adesso Lupo sentiva l'odore.

Ma sentiva anche l'odore dell'Uomo Bianco... e della polvere da sparo...

Attento...

Oh, sì. I Lupi sanno essere cauti. I Lupi sanno correre e artigliare e uccidere, ma quando è necessario... i Lupi sanno essere prudenti.

Scese a quattro zampe, silenzioso come fumo, gli occhi come gli stop di un'automobile.

 

16

 

Gardener diventava via via più nervoso. Jack lo giudicò sulla soglia del panico. I suoi occhi scattavano febbrili dalla cabina dello studio dove Casey era in ascolto alla porta interna dell'ufficio.

Da qualche tempo non giungevano più rumori dal piano superiore.

Sonny Singer fece un passo verso la porta. «Vado su a vedere...»

«Tu non vai da nessuna parte! Torna qui!»

Sonny fece una smorfia, come se Gardener gli avesse dato uno schiaffo.

«Che cosa succede, reverendo Gardener?» lo apostrofò Jack. «Mi sembra un po' nervoso.»

Sonny gli mollò un ceffone che lo fece vibrare dalla testa ai piedi. «Attento a come parli, moccioso. Stai attento!»

«Anche tu mi sembri nervoso, Sonny. E tu, Warwick. E Casey, là dietro.»

«Fategli chiudere la bocca!» urlò all'improvviso Gardener. «Non siete capaci di fare niente? Devo fare tutto da me, qui dentro?»

Sonny schiaffeggiò di nuovo Jack, più violentemente. Gli cominciò a sanguinare il naso, ma Jack sorrise. Lupo era molto vicino ormai... e avanzava con cautela. Jack cominciava a cullare la folle speranza di uscirne vivo.

Casey si drizzò all'improvviso, si strappò di dosso la cuffia e accese l'interfono.

«Reverendo Gardener! Ricevo sirene dai microfoni esterni!»

Gli occhi di Gardener, ora spalancati, tornarono su Casey.

«Come? Quante? A che distanza?»

«Sembrano lontane», rispose Casey. «Ma stanno venendo qui. Non c'è alcun dubbio.»

A questo punto Gardener crollò. Jack lo vide accadere. Restò indeciso per un momento, quindi si asciugò delicatamente la bocca con la mano di taglio.

Non è quello che è successo di sopra e non è per le sirene. Sa che anche Lupo ormai è vicino. A suo modo ne sente l'odore... e non gli piace. Lupo, forse abbiamo una speranza!

Gardener consegnò la pistola a Sonny Singer. «Non ho tempo da dedicare alla polizia in questo momento. E non posso occuparmi di quello che è successo di sopra», annunciò. «Sta per arrivare Morgan Sloat. Vado a Muncie. Sonny, tu e Andy venite con me. Vado a tirar fuori la macchina dalla rimessa e intanto tu tieni questa pistola puntata sul nostro amico Jack. Quando senti il clacson corri fuori.»

«E Casey?» brontolò Andy Warwick.

«Sì, sì, certo, anche Casey», accettò seduta stante Gardener e Jack pensò: Vi pianta in asso, imbecilli. Vi sta mollando ed è così evidente che tanto varrebbe che ve lo scrivesse su un cartellone pubblicitario. Ma voi avete le cervella troppo cotte per accorgervene. Sareste capaci di restarvene qui per dieci anni ad aspettare di sentire quel clacson, posto che non finiscano prima cibo e carta igienica.

Gardener si alzò. Sonny Singer, con la faccia ora colorita dall'emozione per l'incarico di responsabilità ricevuto, sedette alla scrivania spianando la pistola su Jack. «Se quel ritardato del suo amico si fa vivo, sparagli», gli ordinò Gardener.

«Ma come fa a farsi vivo? È nella gabbia.»

«Lascia perdere. È cattivo. Sono cattivi tutti e due. È indubitabile. È assiomatico. Se quel ritardato viene qui, sparagli. Ammazzali tutti e due.»

Selezionò una delle chiavi del suo mazzo. «Al clacson», disse ancora. Aprì la porta e uscì. Jack tese l'orecchio, ma non udì le sirene.

La porta si richiuse dietro al reverendissimo Gardener.

 

17

 

Tempo che si dipana lentamente.

Un minuto che parve durarne due; due che sembravano dieci; quattro lunghi come un'ora. I tre assistenti di Gardener rimasti con Jack sembravano in una fase di stallo durante una partita ai quattro cantoni. Sonny sedeva eretto alla scrivania di Gardener, posto che gradiva e ambiva. La pistola era saldamente puntata verso la faccia di Jack. Warwick era in piedi vicino alla porta che dava verso l'interno. Casey sedeva nella cabina illuminata. Si era applicato nuovamente la cuffia e teneva gli occhi vacui fissi sull'altro vetro, nell'oscurità della cappella. Non vedeva niente. Ascoltava soltanto.

«Non ha intenzione di portarvi con lui, lo sapete», sbottò all'improvviso Jack. Restò stupito lui stesso dal suono della propria voce, uniforme e impavida.

«Zitto tu, moccioso», ribatté bruscamente Sonny.

«Non trattenete il fiato mentre aspettate di sentire quel clacson», incalzò Jack. «Diventereste cianotici.»

«La prossima volta che apre bocca, Andy, rompigli il naso», disse Sonny.

«Certo, certo», imperversò Jack. «Rompimi il naso, Andy. E tu, Sonny, sparami. Stanno arrivando gli sbirri, Gardener è scappato e troveranno voi tre qui, attorno a un cadavere in una camicia di forza.» Fece una pausa e si corresse. «Un cadavere in una camicia di forza con il naso rotto.»

«Pestalo, Andy.»

Andy Warwick venne verso Jack che sedeva imprigionato nella camicia di forza con calzoni e mutande calati sulle caviglie.

Jack lo guardò diritto negli occhi. «Coraggio, Andy», lo esortò. «Picchiami. Me ne starò fermo. Dove lo trovi un bersaglio più facile?»

Andy Warwick chiuse il pugno, spostò il braccio all'indietro... ma esitò.

Momentaneamente indeciso, diede tempo a Jack di lanciare un'occhiata all'orologio digitale sulla scrivania di Gardener. «Sono passati quattro minuti, Andy. Quanto ci vuole per tirar fuori una macchina da una rimessa? Specialmente quando si va di fretta?»

Sonny Singer abbandonò di scatto la poltrona di Gardener, uscì da dietro la scrivania e avanzò minaccioso su Jack. La sua faccia magra ed enigmatica era contratta dal furore. Veniva avanti a pugni chiusi. Warwick, che era più muscoloso di lui, lo trattenne. Ora l'espressione di Warwick era di sconcerto, di sconcerto profondo.

«Aspetta», disse.

«Non voglio più sentire le sue coglionate!»

«Perché non chiedi a Casey a che distanza sono adesso le sirene?» intervenne nuovamente Jack e Warwick s'adombrò. «Vi ha mollato la patata bollente. Non ve ne rendete conto? Vi devo spiegare io com'è la situazione? Va male, qui dentro. E lui lo sapeva... l'ha fiutato! Vi ha dato una bella fregatura. A giudicare da quello che si è sentito venire da sopra...»

Singer si liberò facilmente da Warwick, che lo tratteneva con scarsa convinzione, e colpì Jack alla faccia. La testa di Jack s'inclinò dall'altra parte e tornò lentamente indietro.

«...è una gran bella fregatura», finì Jack.

«Chiudi la bocca o ti ammazzo», sibilò Sonny.

Le cifre dell'orologio erano cambiate.

«Adesso sono cinque minuti», li informò Jack.

«Sonny», propose allora Warwick con un nodo in gola. «Tiriamogli via quella camicia.»

«No!» L'urlo di Sonny era di furore, di sconfitta... e anche di paura.

«Sai che cosa ha sempre detto il reverendo», gli rammentò precipitosamente Warwick. «L'altra volta. Quando sono venuti quelli della televisione. Ha detto che nessuno deve vedere le camicie di forza. Non capirebbero. Potrebbero...»

Clic! Era l'interfono.

«Sonny! Andy!» La voce di Casey era colma di panico. «Sono vicine! Le sirene! Cristo! Ma che cosa dobbiamo fare?»

«Togligliela subito!» insisté Warwick, la cui faccia di cera era illuminata solo da due chiazze rosse sugli zigomi.

«Ma il reverendo Gardener ha detto anche...»

«Non me ne fotte un cazzo di che cosa ha detto!» Subito dopo Warwick abbassò la voce in una specie di impaurito lamento infantile. «Ci beccheranno, Sonny!»

Ora anche Jack ebbe l'impressione di udire le sirene, anche se poteva essere solo un gioco della sua immaginazione.

Gli occhi di Sonny ruotarono verso di lui, ora dolenti nella trappola insopportabile dell'indecisione. Alzò la mano armata e per un momento Jack temette che avrebbe veramente premuto il grilletto.

Ma ormai erano trascorsi sei minuti e il clacson ancora non si era udito ad annunciare che il deus ex machina era in partenza per Muncie.

«Togligliela tu», concluse allora Sonny, torvo. «Io non voglio nemmeno toccarlo. È un peccatore. Ed è un finocchio!»

Tornò alla scrivania mentre Andy Warwick armeggiava nervosamente con i lacci della camicia di forza.

«È meglio che non dici niente», ansimava. «È meglio che non dici niente o ti ammazzo io stesso.»

Liberato il braccio destro.

Liberato il braccio sinistro.

Le braccia gli ricaddero inerti in grembo. Tornò il formicolio.

Warwick gli sfilò del tutto l'odiato indumento, orribile arnese di tela bigia e lacci di cuoio. Lo guardò, quando lo ebbe fra le mani, e fece una smorfia. Poi attraversò velocemente la stanza e andò a nascondere la camicia di forza nella cassaforte di Gardener.

«Tirati su i calzoni», ordinò Sonny a Jack. «Credi che mi piaccia stare a guardare i tuoi gingilli?»

Jack si rialzò faticosamente gli slip, afferrò i calzoni, se li lasciò sfuggire di mano, riuscì finalmente a rivestirsi.

Clic! L'interfono.

«Sonny! Andy!» La voce terrorizzata di Casey. «Sento qualcosa!»

«Stanno arrivando?» quasi strillò Sonny. Warwick raddoppiò i suoi sforzi per far stare la camicia di forza nella cassaforte.

«Stanno arrivando all'ingresso...»

«No! Nella cappella! Non vedo niente ma sento qualcosa nella...»

La vetrata andò in frantumi con un'esplosione e Lupo balzò dalle tenebre della cappella nello studio.

 

18

 

Giunsero orribilmente amplificate le urla di Casey che indietreggiava dalla console sulla sua poltrona a rotelle.

Nella cabina di registrazione ci fu una breve tempesta di vetri. Lupo atterrò a quattro zampe sul piano inclinato della console e da lì si calò lentamente per terra, gli occhi fulgidi di una luce rossa. I suoi lunghi artigli mossero a casaccio cursori e interruttori e il grande registratore a bobine si mise in moto.

«Comunisti!» tuonò la voce del reverendo Gardener. Era al massimo del volume e cancellava totalmente le grida di terrore di Casey e le urla di Warwick che gli ordinava di sparare. «Sonny! Spara, spara!» Ma non si udiva solo la voce di Gardener. A fargli da sottofondo, come musica che uscisse dall'inferno, giungevano i belati di numerose sirene di una carovana di automobili della polizia che imboccavano il viale d'accesso della Casa del Sole.

«Oh, vi diranno che non c'è niente di male a sfogliare quelle riviste sporche! Vi diranno che non fa niente, che è contro la legge pregare nelle scuole pubbliche! Vi diranno persino che non c'è niente di male che ci siano sedici deputati statunitensi e due governatori che sono omosessuali dichiarati! Vi diranno...»

La poltroncina di Casey andò a urtare il vetro fra lo studio e l'ufficio di Gardener. La sua testa si girò e per pochi istanti gli altri videro i suoi occhi terrorizzati e strabuzzati. Poi Lupo spiccò il salto dalla console. La sua testa coprì la gola di Casey... e vi si affondò dentro. Le sue fauci cominciarono ad aprirsi e chiudersi alla velocità di un apriscatole. Un getto di sangue sprizzò sul vetro mentre Casey cominciava a contorcersi.

«Spara, Sonny, spara a quel mostro!» urlò Warwick.

«Credo che invece ammazzerò lui», rispose Sonny girandosi verso Jack. Parlava con il tono di un uomo che è finalmente giunto a una conclusione fondamentale. Annuiva mentre cominciava a sorridere.

«...giorno verrà, ragazzi! Oh, sì, un giorno grandioso e quel giorno quei comunisti umanitari atei satanici scopriranno che non c'è roccia capace di far loro da scudo. Albero morto capace di dar loro riparo! Dovranno, oh dite hallelujah, dovranno...»

Lupo ringhiava e sbranava.

Gardener teneva concione contro comunisti e liberali, contro gli spacciatori ripudiati da Dio che si adoperavano perché la preghiera non facesse più il suo ingresso nelle scuole pubbliche.

Sirene all'esterno. Tonfi di portiere d'automobile. Qualcuno che raccomandava a qualcun altro di essere prudente, perché il ragazzo era sembrato spaventato al telefono.

«Sì, sei tu il colpevole, tu hai provocato questo guaio.»

Sonny alzò la pistola. Il foro della canna sembrò a Jack grande come l'imboccatura del tunnel di Oatley.

La parete di vetro fra lo studio e l'ufficio esplose con il rumore secco di un tuono violento. Una sagoma scura e irsuta piombò nella stanza con il muso deturpato dal taglio provocatogli da una lunga scheggia e le zampe insanguinate. Ruggì e fu un suono quasi umano e Jack fu investito da un pensiero così preciso e potente che si sentì spinto all'indietro.

NON SI DEVE FAR MALE ALLA MANDRIA!

«Lupo!» gemette. «Attento! Attento, ha una pi...»

Sonny premette il grilletto due volte. Le detonazioni furono assordanti nello spazio ristretto dello studio, ma le pallottole non erano indirizzate a Lupo, bensì a Jack. Colpirono però Lupo, perché proprio in quell'istante si trovava fra i due ragazzi, nell'arco del suo balzo. Jack vide aprirsi squarci irregolari e sanguinanti nei punti dove i proiettili uscivano dal corpo di Lupo. La traiettoria di entrambe le pallottole fu deviata dalle costole di Lupo e nessuna delle due raggiunse Jack, nonostante avesse avvertito uno spostamento d'aria all'altezza della guancia sinistra.

«Lupo!»

L'agile balzo di Lupo si era trasformato in una movenza goffa. Urtò con la spalla destra la parete, schizzando sangue e facendo precipitare a terra una fotografia incorniciata di Gardener. Ridendo, Sonny Singer si girò verso di lui e sparò di nuovo. Impugnava la pistola con entrambe le mani e le sue spalle sussultavano per il rinculo. Il fumo si addensava a mezz'aria, in una striscia opaca e puzzolente. Lupo si drizzò sulle zampe e da lì riuscì ad alzarsi in piedi. Un urlo rotto dal dolore e dalla furia soffocò la voce tonante di Gardener.

Sonny sparò a Lupo per la quarta volta. Il proiettile gli aprì un foro nella zampa sinistra. Volarono sangue e pezzetti di grasso.

JACKY! JACKY! OH JACKY! CHE MALE, COME MI FA MALE...

Jack si tuffò in avanti e afferrò l'orologio digitale di Gardener, il primo oggetto che trovò a portata di mano.

«Sonny, attento», gridò Warwick. «Attento...» Ma in quel momento Lupo, che ora aveva il torace e lo stomaco ridotti a un cruento ammasso di pelo intriso di sangue, gli saltò addosso. Warwick lottò e per qualche istante sembrò che i due stessero ballando.

Jack calò l'orologio digitale sulla testa di Sonny con tutte le forze, nel momento in cui Sonny cominciava a girarsi. Il telaio di plastica scricchiolò. Le cifre del quadrante cominciarono a cambiare a casaccio.

Sebbene malfermo sulle gambe, Sonny riuscì a voltarsi del tutto e cercò di alzare la pistola. Jack lo colpì di nuovo e questa volta l'orologio lacerò la bocca di Sonny che si aprì in un vasto sorriso artificiale da clown. Alcuni denti gli andarono in frantumi. L'indice della sua mano premette di nuovo il grilletto e il proiettile si conficcò per terra fra i suoi piedi.

Sonny finì contro la parete, ritrovò l'equilibrio e sorrise a Jack dalla bocca piena di sangue. Alzò nuovamente la pistola, dondolando pericolosamente.

«Maledetto...»

Lupo scagliò Warwick. Warwick volò nell'aria e piombò sulla schiena di Sonny nel momento in cui Sonny faceva fuoco. La pallottola mancò il bersaglio e colpì invece una delle bobine del registratore polverizzandola. Gli striduli fanatismi di Gardener cessarono. Dagli altoparlanti si alzò un cupo fruscio di fondo.

Ruggendo, vacillando, Lupo avanzò verso Sonny Singer. Sonny puntò la sua pistola e schiacciò il grilletto. Si udì uno scatto secco, impotente. Il sorriso di Sonny si scompose.

«No», disse sottovoce e schiacciò di nuovo il grilletto... e di nuovo... e di nuovo. Quando Lupo gli fu addosso, lanciò la pistola e cercò di ripararsi dietro la grande scrivania di Gardener. La pistola rimbalzò sul cranio di Lupo che, facendo appello ai pochi residui del suo vigore fisico, spiccò un altro balzo da una parte all'altra della scrivania sparpagliando per l'ufficio tutto quello che c'era sopra. Sonny indietreggiò ancora, ma questa volta Lupo lo afferrò per un braccio.

«No!» gridò Sonny. «No, è meglio che non lo fai, finirai di nuovo chiuso in gabbia, io sono un pezzo grosso qui dentro. Io... io... io... AAAAAAAAAAHHHHH!»

Lupo gli torse il braccio. Si udì il rumore di una coscia di tacchino che viene strappata da un ragazzo affamato e sovreccitato. A un tratto il braccio di Sonny era nella possente zampa di Lupo. Sonny indietreggiò dondolando, mentre fiotti di sangue gli sgorgavano dalla spalla. Jack vide sporgere dall'agghiacciante ferita un pomolo bianco di osso. Si voltò dall'altra parte e vomitò violentemente.

Per un attimo il mondo si confuse in un grigiore uniforme.

 

19

 

Quando guardò di nuovo, Lupo era eretto nel mezzo del carnaio. I suoi occhi erano ora di color giallo pallido, come candele morenti. Stava accadendo qualcosa alle sue sembianze, alle sue braccia, e alle sue gambe. Stava ridiventando Lupo e allora Jack capì appieno che cosa significava. Le antiche leggende mentivano su come solo proiettili d'argento possono uccidere un licantropo; ma evidentemente non mentivano su altri particolari. Lupo si stava trasformando perché moriva.

«Lupo, no!» gridò, riuscendo a rialzarsi in piedi. Avanzò di qualche passo, scivolò in una pozza di sangue, cadde su un ginocchio, si alzò di nuovo. «No!»

«Jacky...» La sua voce era cupa, gutturale, poco più di un ringhio... ma comprensibile.

E incredibilmente Lupo stava cercando di sorridere.

Warwick aveva aperto la porta dello studio. Indietreggiava lentamente cercando di guadagnare le scale, gli occhi ancora stralunati.

«Vai!» gridò Jack. «Vai, vattene da qui!»

Andy Warwick se la diede a gambe come un coniglio atterrito.

Nel monotono fruscio di fondo giunse dall'interfono la voce di Franky Williams. Il tono era di raccapriccio, ma insieme tradiva tutta la violenza di una malsana eccitazione. «Cristo, guardate che roba! Qualcuno ha dato fuori di matto con una mannaia. Qualcuno di voi vada a controllare in cucina!»

«Jacky...»

Lupo stramazzò come un albero segato.

Jack si inginocchiò e lo rovesciò. Il pelo stava scomparendo dalle sue guance con l'innaturale velocità di un'immagine fotografica gettata nell'acido. I suoi occhi erano ridiventati color nocciola e a Jack sembravano terribilmente stanchi.

«Jacky...» Lupo alzò la mano insanguinata per sfiorargli la guancia. «Ti... ha... colpito?»

«No», lo tranquillizzò Jack prendendogli affettuosamente la testa fra le braccia. «No, Lupo, non mi ha preso. Neanche una volta.»

«Ho...» Gli occhi di Lupo si chiusero e poi si riaprirono lentamente. Allora sorrise con incredibile dolcezza e pronunciò le parole scandendole con cura per il bisogno assoluto di esprimere almeno quest'ultimo concetto: «Ho... protetto... la mia mandria».

«Sì, sei stato in gamba», lo complimentò Jack mentre cominciava a piangere. Le lacrime gli facevano male. Piangeva reggendo fra le braccia la testa stanca e irsuta di Lupo. «Sei stato valoroso, buon vecchio Lupo.»

«Buon... buon vecchio Jacky.»

«Lupo, devo andare di sopra... ci sono i poliziotti... l'ambulanza...»

«No!» Di nuovo parve che Lupo compisse uno sforzo tremendo. «Vai, vattene adesso.»

«Non senza di te, Lupo!» E le luci raddoppiavano, triplicavano. Gli bruciavano le mani con le quali teneva la testa di Lupo. «Non senza di te, oh no, mai...»

«Lupo... non vuole vivere in questo mondo.» Trasse un respiro profondo e vibrante nel grande torace sconquassato e cercò di sorridere di nuovo. «Gli odori... sono troppo cattivi.»

«Lupo, ascoltami, Lupo...»

Lupo gli prese dolcemente le mani e sotto le dita Jack sentì la peluria che gli scompariva dai palmi. Era una sensazione spettrale, terribile.

«Ti voglio bene, Jacky.»

«Anch'io voglio bene a te, Lupo. Subito subito.»

Lupo sorrise.

«Sto tornando indietro, Jacky... lo sento. Torno indietro.»

E in effetti Jack sentiva che le sue mani perdevano consistenza.

«Lupo!» gridò.

«Torno a casa.»

«Lupo, no!» Si sentì spezzare il cuore nel petto. Sì, spezzare, perché è vero che i cuori si possono spezzare. «Lupo, torna indietro. Ti amo!» Adesso Lupo sembrava diventare leggero, come se si stesse trasformando in un baccello ancora tenero, o in un'illusione ottica. Un miraggio.

«...addio...»

Diventava trasparente. Svaniva... svaniva.

«Lupo!»

«...ti voglio bene, Ja...»

Lupo non c'era più. Restava sul pavimento una macchia di sangue.

«Oh Dio», gemette Jack. «Oh Dio, oh Dio.»

Si strinse le braccia intorno al corpo e cominciò a dondolarsi avanti e indietro nell'ufficio devastato, mugolando.

 

27

Jack se la svigna di nuovo

 

1

 

Passò del tempo. Quanto, se molto o poco, Jack non avrebbe saputo dire. Sedeva con le braccia strette attorno a sé, come se fosse ancora imprigionato nella camicia di forza, e si dondolava avanti e indietro, gemendo, domandandosi se Lupo fosse scomparso davvero.

È scomparso. Oh sì, se n'è andato. E sai chi l'ha ucciso, Jack? Indovina.

A un certo punto il fruscio di fondo salì di volume e subito dopo, con un vibrante crepitio di energia statica, un corto circuito spense tutto quanto, fruscio, chiacchierio al piano di sopra, rumore di motori accesi all'esterno. Jack quasi non se ne accorse.

Vai. Lupo ti ha detto di andare.

Non posso. Non ce la faccio. Sono stanco. E qualunque cosa faccia è la cosa sbagliata. Provoco morte...

Piantala di compiangerti! Pensa a tua madre, Jack!

No, sono stanco. Lasciami in pace.

E la Regina.

Ti prego, lasciami stare...

Finalmente udì aprirsi la porta in cima alle scale e questo lo strappò alle sue angosce. Non voleva farsi trovare lì. Che lo prendessero, fuori, in cortile, ma non in questa stanza puzzolente, piena di sangue e di fumo, dove lui era stato torturato e il suo amico era stato ammazzato.

Senza pensare a quel che faceva, Jack prese la busta sulla quale c'era scritto JACK PARKER. Ci guardò dentro e vi trovò il plettro, il dollaro d'argento, il suo logoro portafogli, l'atlante stradale di Rand McNally. Rovesciò la busta e vide la biglia. Ripose tutto quanto nel suo zaino che si mise in spalla, muovendosi come sotto ipnosi.

Passi sulle scale, lenti e cauti.

«...ma dove cavolo sono le luci...»

«...che odore strano, sembra di essere allo zoo.»

«...facciamo attenzione, ragazzi...»

Lo sguardo di Jack si posò casualmente sul cassetto metallico dello schedario con tutte le sue buste ordinate. Ne prelevò due.

Adesso, quando ti acchiapperanno, ti incrimineranno per furto, oltre che per omicidio. Pazienza.

Ora si muoveva giusto per muoversi, per nessun altro motivo.

Il cortile sembrava deserto. Jack si fermò in cima ai gradini e si guardò attorno, incredulo. Voci gli giungevano dall'altra parte dell'edificio, insieme con luci pulsanti e sporadiche scariche di energia statica o voci gracchianti nelle ricetrasmittenti della polizia, regolate al massimo volume. Ma il cortile posteriore era vuoto. Non aveva senso. Tuttavia, se erano rimasti abbastanza confusi, sconcertati da quello che avevano trovato...

Poi una voce sommessa a non molti metri alla sua sinistra esclamò: «Cristo. Ma hai visto?».

La testa di Jack si girò di scatto da quella parte. Laggiù, simile a una rudimentale bara dell'era del ferro sul terreno nudo, c'era la gabbia. All'interno si spostava il fascio di luce di una torcia. Ne sporgevano due scarpe. Una sagoma indistinta era accovacciata all'ingresso della gabbia e ne esaminava la porta.

«Questa è stata scardinata», gridò l'uomo che si trovava all'esterno a quello che perquisiva l'interno. «Ma non capisco come sia stato possibile. Questi cardini sono d'acciaio. Eppure sono stati... divelti.»

«Lascia perdere i cardini», ribatté la voce sommessa dall'interno. «Lo sai che cosa ci facevano, qui dentro? Ci tenevano i ragazzi, Paulie! Davvero! I ragazzi! Ci sono delle iniziali sulle pareti...»

La torcia si spostò.

«...e versetti della Bibbia...»

La luce si spostò di nuovo.

«...e anche disegni. Disegni piccoli. Omini e donnine stilizzati, come quelli che fanno i bambini... Cristo, ma tu credi che Williams ne fosse al corrente?»

«Per forza», rispose Paulie, che stava ancora esaminando i cardini deformati all'ingresso della gabbia.

Paulie cercava di sbirciare dentro. Il suo collega cominciò a retrocedere. Senza sforzarsi di nascondersi, Jack attraversò il cortile passando dietro di loro. Risalì la parete della rimessa e uscì sulla strada. Da lì vide il disordinato assembramento di automobili della polizia davanti all'ingresso della Casa del Sole. In quel momento arrivò di gran carriera un'ambulanza a sirene spiegate.

«Ti ho voluto bene, Lupo!», mormorò Jack, passandosi un braccio sugli occhi umidi. S'incamminò per la strada nell'oscurità pensando che con tutta probabilità lo avrebbero bloccato a meno di un miglio dalla Casa del Sole. Ma tre ore dopo stava ancora camminando. Evidentemente la polizia aveva fin troppo di cui occuparsi.

 

2

 

Più avanti c'era un'autostrada, oltre il prossimo dosso, o quello dopo ancora. Jack scorgeva il riverbero arancione dell'illuminazione al sodio e udiva il rumore dei grossi articolati.

Si fermò in una gola ingombra di immondizie e si lavò faccia e mani in un rivoletto che sgorgava da un condotto di scarico. L'acqua era praticamente ghiaccio sciolto, ma servì lo stesso a smorzare per un po' le dolorose pulsazioni che aveva alle mani. Poi, quasi involontariamente, sentì rinascere in sé le antiche cautele.

Per un momento si trattenne dov'era, sotto il cielo nero dell'Indiana, ad ascoltare il passaggio degli autocarri.

Il vento che mormorava nelle fronde degli alberi gli sollevava i capelli. Si sentiva il cuore pesante per la perdita di Lupo, ma il cordoglio non poteva intaccare più che tanto la gioia di ritrovarsi libero.

Un'ora più tardi un camionista rallentò all'altezza di un ragazzo stanco e pallido fermo nella corsia d'emergenza con il pollice alzato. Jack montò in cabina.

«Dove sei diretto, ragazzo?»

Jack era troppo stanco e troppo angosciato per potersi concentrare con la sua Storia, che in ogni caso ricordava solo vagamente. Si augurò che gli tornasse in seguito.

«A ovest», rispose. «Fin dove va lei.»

«Più o meno al centro dello stato.»

«Benissimo» rispose Jack e si addormentò.

Il grosso camion rombò nella fredda notte dell'Indiana. Mentre Charlie Daniels cantava dal riproduttore a cassette, filava verso ovest, inseguendo i propri anabbaglianti verso l'Illinois.

 

28

Il sogno di Jack

 

1

 

Naturalmente con lui c'era ancora Lupo. Lupo era tornato a casa, ma su tutti gli autocarri e i furgoni e le automobili impolverate che percorrevano le autostrade dell'Illinois, una grande ombra leale viaggiava accanto a Jack. Questo fantasma ridente trafiggeva il cuore di Jack. Talvolta quasi vedeva la sua sagoma possente e villosa galoppare nei campi lungo il tracciato stradale. Libero, Lupo lo seguiva con i suoi occhi radiosi del colore della polpa di zucca. Quando Jack distoglieva Io sguardo, avvertiva la dolorosa assenza di una mano di Lupo che si chiudeva attorno alla sua. Adesso che tanto gli mancava il suo amico, provava vergogna dell'impazienza con cui l'aveva trattato e si sentiva affluire il sangue al viso. Aveva meditato di abbandonare Lupo più volte di quante riuscisse a contare. Vergogna, vergogna. Lupo era stato... c'era voluto del tempo prima che Jack ci arrivasse, ma la definizione giusta era nobile, e questo essere nobile, così fuori posto in questo mondo, era morto per lui.

Ho protetto la mia mandria. Jack Sawyer non era più la mandria. Ho protetto la mandria. Certe volte, il camionista o l'agente delle assicurazioni che prendevano a bordo questo singolare e a suo modo avvincente ragazzo fermo ai bordi della strada e lo accoglievano sul proprio veicolo sebbene fosse lercio e trasandato, anche quando magari mai in vita loro avevano dato un passaggio a un autostoppista, certe volte, sbirciandolo, lo sorprendevano a ricacciare indietro le lacrime.

Mentre attraversava velocemente l'Illinois, Jack piangeva la morte di Lupo. Inspiegabilmente aveva sempre previsto di non incontrare grandi difficoltà a trovare passaggi in questo stato, ed era vero che spesso gli bastava alzare il pollice e guardare dritto negli occhi il conducente del veicolo in arrivo per ottenere immediatamente aiuto. Per la maggior parte coloro che gli davano un passaggio non gli chiedevano nemmeno la Storia. Jack si limitava a una minima spiegazione del perché stesse viaggiando da solo. «Vado a trovare un amico a Springfield.» «Vado a prendere una macchina che devo riportare a casa.» «Bene, bene», gli rispondevano e Jack non era nemmeno sicuro che lo avessero ascoltato. La sua mente rimescolava una miriade d'immagini di Lupo che si tuffava in un fiume per salvare le sue creature dei Territori, Lupo che ficcava il naso in un fragrante involto che conteneva un hamburger, Lupo che spingeva qualcosa da mangiare sotto la porta della sua baracca. Lupo che faceva irruzione nello studio di registrazione, veniva colpito da numerosi proiettili, cominciava a dissolversi... Jack non aveva alcun desiderio di rivedere queste scene dolorose, ma non poteva opporvisi, e ogni volta gli occhi riprendevano a bruciargli di pianto.

Non lontano da Danville, l'ometto di mezza età che lo aveva caricato sulla sua automobile, un uomo brizzolato e con l'espressione fra il serio e il divertito di chi insegna in quinta elementare da vent'anni, smise di scoccargli occhiate furtive e si decise a parlare: «Ma non hai freddo? Quella giacchettina non ti può bastare».

«Sì, un pochino», rispose Jack. Gardener riteneva che le giacche di tela fossero sufficienti per il lavoro nei campi durante l'intero inverno, ma ormai il clima rigido si faceva sentire sotto forma di morsi sulla sua pelle.

«C'è un cappotto sul sedile posteriore», disse l'uomo. «Prendilo. No, no, non provarci nemmeno. È tuo. Non finirò congelato, non temere.»

«Ma...»

«Guarda che non hai scelta. Da questo momento è tuo. Provalo.»

Jack si allungò per prelevare dal sedile posteriore un pesante fagotto di stoffa che si pose sul grembo. Lì per lì gli parve informe e anonimo. Vide affiorare una tasca cucita all'esterno, un'olivetta di legno. Era un loden, odoroso di tabacco da pipa.

«È quello vecchio», spiegò l'uomo. «Lo tengo in macchina perché non so che cosa farne. L'anno scorso i miei figli mi hanno regalato quest'affare di piume d'oca, perciò puoi prenderlo.» Jack se lo infilò sulla giacca di tela.

«Ragazzi», sospirò. Era come sentirsi abbracciati da un orso.

«Bene», disse l'uomo. «Ora se mai ti troverai di nuovo in mezzo a una strada fredda e ventosa, potrai ringraziare Myles P. Kiger di Ogden, Illinois, per averti salvato la pelle. La tua...» Myles P. Kiger parve sul punto di aggiungere ancora qualcosa. Una parola rimase sospesa nell'aria per un secondo, davanti al suo sorriso, che poco dopo si deformò in una stupida smorfia d'imbarazzo. Kiger tornò bruscamente a guardare la strada. Nella luce grigia del mattino, Jack gli vide comparire un disegno di macchie rosse sulle guance.

La tua (qualcosa) pelle?

Oh, no.

La tua splendida pelle. La tua pelle, accarezzabile, baciabile, adorabile... Jack sprofondò le mani nelle tasche del loden stringendoselo attorno al corpo. Myles P. Kiger di Ogden, Illinois, guardava la strada.

«Ehm», borbottò Kiger, proprio come in una storia a fumetti.

«Grazie per il cappotto», disse Jack. «Davvero. Mi ricorderò di lei tutte le volte che l'avrò addosso.»

«Sì, certo», bofonchiò Kiger. «Non è niente.» Ma per un secondo la sua faccia ricordò a Jack quella del povero Donny Keegan alla Casa del Sole. «C'è un posticino poco più avanti», annunciò Kiger. Adesso la sua voce era sbrigativa. Aveva assunto la cadenza di una falsa impassibilità. «Possiamo mangiare un boccone, se ti va.»

«Sono rimasto senza soldi», si scusò Jack, mentendo per la cifra esatta di due dollari e otto centesimi.

«Non ti preoccupare di quello.» Kiger aveva già abbassato la leva della freccia. Entrarono in un parcheggio battuto dal vento e quasi deserto davanti a una costruzione bassa e grigia che somigliava a una carrozza ferroviaria. Un'insegna al neon lampeggiava sopra l'ingresso centrale. Kiger fermò l'automobile davanti a una delle vetrate del ristorante ed entrambi smontarono. Jack poté constatare che quel loden lo avrebbe protetto bene contro il freddo, come un'armatura di lana. Si avviò verso la porta sotto l'insegna lampeggiante, ma quando si girò vide che Kiger era rimasto accanto alla sua automobile. Lo guardava da sopra il tetto della vettura, brizzolato e non più di due o tre dita più alto di Jack.

«Ehi.»

«Senta, se vuole indietro il suo cappotto non c'è problema», disse Jack.

«Non se ne parla nemmeno. È tuo. Solo che pensavo che in fondo non ho fame e che se tengo duro riesco ad arrivare a casa in anticipo.»

«Sicuro.»

«Troverai un altro passaggio qui. Facilmente. Te lo giuro. Non ti lascerei qui se sapessi che non è così.»

«Grazie.»

«Aspetta. Ti ho detto che ti pagavo da mangiare.» S'infilò una mano nella tasca dei calzoni e tirò fuori una banconota che gli tese sopra il tetto della sua automobile. Il vento gelido gli scompigliava i capelli appiattendoglieli contro la fronte. «Prendi qui.»

«No, non c'è bisogno, mi creda. Ho un paio di dollari.»

«Comprati una bella bistecca», insisté Kiger allungando il braccio sopra la sua automobile e tendendo la banconota come se gli stesse offrendo un salvagente... o come se stesse cercando di afferrarne uno.

Jack tornò riluttante sui suoi passi e prese la banconota. Era da dieci. «Grazie infinite. Sinceramente.»

«Qui, perché non ti prendi anche il giornale, così hai qualcosa da leggere? Sai, metti che devi aspettare un po'.» Kiger aveva già aperto la portiera e si era infilato dentro a pescare un giornale ripiegato dal sedile posteriore. «Tanto io l'ho già letto.» Lo lanciò a Jack.

Le tasche del loden erano così capienti che Jack vi poté infilare il giornale senza difficoltà.

Myles P. Kiger indugiò ancora un momento accanto alla portiera aperta sbirciandolo dagli occhi socchiusi. «Se non ti scoccia che te lo dica, mi sa che farai una vita interessante», commentò.

«È già fin troppo interessante», ribatté con tutta onestà Jack.

 

La bistecca costava cinque dollari e cinquanta centesimi con contorno di patatine fritte. Jack si sedette a un'estremità del bancone e aprì il giornale. L'articolo era in seconda pagina. Il giorno prima aveva visto l'articolo in prima pagina di un quotidiano dell'Indiana: NUMEROSI ARRESTI IN RELAZIONE A ORRIBILE PLURIOMICIDIO. Il magistrato locale Ernest Fairchild e l'agente di polizia Frank B. Williams di Cayuga, Indiana, erano stati incriminati per abusi nella gestione di denaro pubblico e corruzione nel quadro delle indagini sulla morte di sei ragazzi alla Casa di rieducazione per minori di Gardener. Il noto evangelista Robert Gardener era presumibilmente fuggito dall'istituto poco prima dell'arrivo della polizia e anche se non erano stati emessi mandati di cattura contro di lui, era ricercato per chiarimenti. UNA REINCARNAZIONE DI JIM JONES? chiedeva una didascalia sotto una fotografia di Gardener nel suo massimo splendore, braccia aperte, capelli che gli ricadevano in onde perfette. Il fiuto dei cani aveva portato le forze di polizia in una zona nei pressi delle recinzioni percorse da corrente elettrica, dove erano stati sepolti senza cerimonie i cadaveri di cinque ragazzi, quasi tutti ormai troppo decomposti perché si potesse procedere all'identificazione. Ma probabilmente sarebbero riusciti a identificare Ferd Janklow. I genitori avrebbero potuto così dargli una giusta sepoltura per passare il resto della loro vita a chiedersi dove avessero sbagliato, a chiedersi come mai il loro grande amore per Gesù avesse segnato la condanna del loro figlio così brillante e così ribelle. Arrivò la bistecca, troppo salata e coriacea, ma Jack la consumò fino all'ultimo boccone e tirò su tutto il sugo con le patatine mezze crude. Aveva appena terminato il suo pasto quando un camionista barbuto con un berretto delle tigri di Detroit calato su lunghi capelli neri e un eschimo che sembrava fatto di pelle di lupo, gli si fermò davanti, si tolse il grosso sigaro dalla bocca e gli domandò: «Hai bisogno di uno strappo a ovest, ragazzo? Io vado a Decatur». Metà della strada che gli mancava per Springfield. Così.

 

2

 

Quella notte, in un alberghetto da tre dollari indicatogli dal camionista, Jack fece due sogni distinti, ma forse solo perché in seguito ricordò unicamente questi due dei molti che imperversarono nel suo letto, o forse questi due erano in effetti un unico sogno più lungo. Aveva chiuso a chiave la porta della sua stanza, aveva orinato nel lavandino macchiato e crepato che c'era nell'angolo, aveva infilato lo zaino sotto il guanciale e si era addormentato stringendo in mano la grossa biglia che nell'altro mondo era uno specchio dei Territori. Permeava l'aria una suggestione di musica, un bebop accanito, ma a un volume così basso che Jack poté solo individuare fra gli strumenti principali una tromba e un sassofono alto. Richard, pensò pigramente Jack, domani dovrei rivedere Richard Sloat, e scivolò per il pendio del ritmo nel pozzo dell'incoscienza.

Lupo procedeva al trotto in un paesaggio fumigante e disseccato. Era separato da lui da filo spinato che di tanto in tanto s'attorcigliava in fantastici intrichi. Il terreno spoglio era anche percorso da trincee profonde, una delle quali Lupo scavalcò agevolmente con un balzo, rischiando di ruzzolare in uno dei grovigli di fil di ferro.

Attento, gridò Jack.

Lupo si arrestò in tempo e alzò la grossa zampa per mostrare a Jack che non si era fatto male, quindi con molta cautela scavalcò il filo spinato.

Jack si sentì invadere da un senso inebriante di felicità e sollievo. Lupo non era morto. Lupo era di nuovo con lui.

Al di qua del filo spinato, Lupo riprese il suo trotto. Ma il terreno che li divideva raddoppiò misteriosamente mentre un fumo grigio si levava sulle numerose trincee nascondendo quasi del tutto la grossa sagoma irsuta che veniva verso di lui.

Giasone! gridò Lupo. Giasone! Giasone!

Sono ancora qui, rispose Jack.

Non ce la faccio, Giasone! Lupo non ce la fa!

Non rinunciare, urlò Jack. Maledizione, tieni duro!

Lupo si fermò davanti a un intrico impenetrabile di fil di ferro e attraverso il fumo Jack lo vide scendere sulle quattro zampe e mettersi a trotterellare avanti e indietro, cercando un varco con il muso. Su e giù trottava Lupo compiendo ogni volta un percorso più lungo. Diventando ogni secondo più nervoso. Finalmente si rialzò sulle zampe posteriori, piazzò le mani su quel groviglio fitto e aprì di forza uno spazio per gridarci attraverso. Lupo non ce la fa, Giasone! Lupo non ce la fa!

Ti voglio bene, Lupo! gridò Jack.

Giasone! latrò di nuovo Lupo. Sii prudente! Stanno venendo a cercarti! Sono più di prima!

Jack avrebbe voluto chiedergli chi, ma non poteva. E comunque lo sapeva.

A questo punto o fu il sogno a modificarsi totalmente, o subentrò un sogno diverso. Si ritrovò nello studio di registrazione devastato, nell'ufficio della Casa del Sole, denso dell'odore di polvere da sparo e di carne bruciata. Sul terreno era disordinatamente accasciato il corpo mutilato di Singer, mentre il cadavere di Casey pendeva dal vetro fracassato. Jack era seduto per terra e cullava Lupo sorreggendolo fra le braccia e sentiva che Lupo stava morendo. Solo che Lupo non era Lupo.

Jack teneva tra le braccia il corpo tremante di Richard Sloat. Ed era Richard che stava morendo. Dietro le lenti dei suoi sobri occhiali di plastica nera, gli occhi di Richard guizzavano di qua e di là, colmi di dolore. Oh no, oh no, mormorava Jack angosciato. Richard aveva un braccio martoriato e al posto del torace un ammasso informe di polpa vivente e brandelli di camicia bianca inzuppati di sangue. Qua e là scintillavano le estremità di ossa fratturate, come denti.

Non voglio morire, diceva Richard con uno sforzo sovrumano per pronunciare ogni parola. Giasone, non avresti... non avresti dovuto...

Non puoi morire anche tu, lo scongiurava Jack. Tu no.

La parte superiore del corpo di Richard sussultò fra le braccia di Jack e dalla gola gli uscì un lungo suono liquido; poi gli occhi di Richard improvvisamente tersi e tranquilli trovarono quelli di Jack. Giasone. L'eco di quel nome, che era quasi calzante, restò sospesa nell'aria maleodorante. Mi hai ucciso, sussurrò Richard, o piuttosto macciso, perché le sue labbra non erano in grado di scandire bene le sillabe. Poi gli occhi di Richard tornarono a perdersi nel vuoto e il suo corpo diventò improvvisamente pesante fra le braccia di Jack. Non c'era più vita in quel corpo. Giasone DeLoessian alzò la testa di scatto...

 

3

 

...e Jack Sawyer si drizzò di scatto nel letto freddo e sconosciuto di un tugurio di Decatur, Illinois, e nella fioca luce giallastra di un lampione vide il suo alito condensarsi, voluminoso come se esalato da due bocche contemporaneamente. Riuscì a non gridare solo intrecciando le dita delle mani e stringendole forte abbastanza da spaccare una noce. Un altro enorme sbuffo bianco gli scaturì dai polmoni.

Richard.

Lupo che attraversava galoppando quel mondo morto chiamando... che cosa? Giasone.

Il suo cuore eseguì un balzo veloce e deciso, come la scalciata di un cavallo che si alza per superare un ostacolo.

 

29

Richard a Thayer

 

1

 

Alle undici del mattino seguente un Jack Sawyer affranto si tolse lo zaino dalle spalle ai bordi di un lungo campo sportivo coperto di erba secca e bruna di morte. In lontananza due uomini in giacca a scacchi e berretto da baseball lavoravano di rastrello sul tratto di prato che circondava il gruppo di costruzioni più distanti. A sinistra di Jack, subito dietro la palazzina di mattoni rossi che ospitava la biblioteca di Thayer c'era il parcheggio di facoltà. Davanti alia Thayer School un grande cancello si apriva su un viale alberato che correva lungo il perimetro di uno spazioso quadrato nel quale s'incrociavano stretti sentieri. L'unica cosa che faceva spicco al campus era la biblioteca, una sorta di vaporetto in stile Bauhaus costruito con vetro, acciaio e mattoni.

Jack aveva già notato che un cancello secondario dava su un secondo accesso di fronte alla biblioteca. Quest'altra strada percorreva i due terzi della lunghezza della scuola e finiva in uno scarico di rifiuti situato nel cul-de-sac, subito prima del punto in cui il terreno si rialzava a formare un altopiano in miniatura con il campo da football.

Jack s'incamminò verso le palazzine che contenevano le aule. Quando gli studenti avessero cominciato a recarsi alla mensa, avrebbe trovato la stanza di Richard, Entrata 5, Nelson House.

L'erba secca dell'inverno scricchiolava sotto i suoi piedi. Jack si strinse addosso l'eccellente cappotto di Myles P. Kiger, confidando che almeno quello gli desse un minimo di aspetto da scolaro. Passò fra la Thayer Hall e un dormitorio che si chiamava Spence House, in direzione del quadrato. Dalle finestre della Spence House gli giunsero voci impigrite di ragazzi che aspettavano l'ora di colazione.

 

2

 

Guardando in direzione del quadrato vide un uomo anziano un po' curvo, color bronzo verdastro, su un piedestallo alto come il banco di un falegname, intento a scrutare la copertina di un pesante libro. Doveva essere Elder Thayer. Indossava colletto rigido, gran fiocco alla gola e la giacca lunga di un Trascendentalista della Nuova Inghilterra. La testa d'ottone di Elder Thayer era china sul volume, rivolta più o meno verso le palazzine delle aule.

Jack girò a destra in fondo al sentiero. Da una finestra del piano superiore si scatenò un baccano improvviso, ragazzi che chiamavano a gran voce un nome come «Etheridge! Etheridge!». Poi grida e schiamazzi accompagnati dal rumore di pesante mobilia che veniva sospinta su un pavimento di legno. «Etheridge!»

Jack udì il rumore di una porta che si richiudeva dietro di lui e si guardò alle spalle. Un ragazzo alto con i capelli color biondo sporco scendeva di corsa i gradini della Spence House. Indossava una giacca sportiva di tweed, cravatta e un paio di scarpe da caccia. Solo una lunga sciarpa gialla e blu rigirata più di una volta intorno al collo lo proteggeva dal freddo. Aveva un aspetto allo stesso tempo sparuto e borioso e al momento la sua faccia oblunga era quella di un anziano in collera per un affronto. Jack si calò sulla testa il cappuccio del suo loden riprendendo il cammino.

«Che nessuno si muova!» gridò il ragazzo alto alla finestra chiusa. «Voialtri pivelli state tranquilli!»

Jack si avvicinava alla palazzina seguente.

«State spostando le sedie», gridò il ragazzo alle sue spalle. «Vi sento! Basta!» E finalmente Jack si sentì richiamare.

Si girò con il cuore in gola.

«Fila immediatamente alla Nelson House, chiunque tu sia. Gambe in spalla. Filare. Altrimenti riferisco al direttore del tuo convitto!»

«Signorsì», rispose Jack girandosi nuovamente per partire nella direzione indicatagli dall'anziano.

«Sei in ritardo di almeno sette minuti!» gli strillò Etheridge, inducendo Jack a mettersi al trotto. «Più veloce, ho detto!»

Jack si mise a correre.

Quando abbordò la discesa (si augurava che fosse la strada giusta; era in ogni caso la direzione nella quale aveva guardato Etheridge), vide una lunga automobile nera, una limousine che varcava in quel momento i cancelli dell'ingresso e scendeva sibilando dolcemente per il viale verso il quadrato. Allora temette che la persona seduta dietro i finestrini affumicati della limousine non fosse il genitore di qualsiasi second'anno della Thayer School.

La lunga vettura nera veniva avanti a insolente lentezza.

No, pensò Jack. Mi lascio spaventare dai miei stessi pensieri.

Eppure non riusciva a muoversi. Osservò la limousine fermarsi all'altezza del quadrato, con il motore acceso. Un autista negro con le spalle di un terzino scese e aprì la portiera posteriore. Con una certa fatica smontò un uomo anziano e canuto, certamente sconosciuto a Jack. Indossava un soprabito nero che rivelava uno sparato di camicia di un bianco immacolato e una cravatta nera come pece. Rivolse un cenno del capo al suo autista e s'incamminò verso la palazzina principale. Non guardò mai in direzione di Jack. L'autista piegò con grazia eccessiva il collo e guardò in su, come chiedendosi se avrebbe nevicato. Jack indietreggiò tenendo d'occhio l'uomo anziano che aveva raggiunto i gradini della Thayer Hall. L'autista era assorto nel suo specioso esame del cielo. Jack continuò a ritroso per il sentiero finché fu al riparo della fiancata dell'edificio. Qui si girò e ripartì al trotto.

 

La Nelson House era una palazzina di tre piani sull'altro versante del quadrato. Due finestre al pianterreno gli mostrarono una decina di anziani nell'esercizio dei loro privilegi: leggere spaparanzati sui divani, giocare distrattamente a carte attorno a un tavolino; alcuni osservavano pigramente nella medesima direzione, probabilmente uno schermo televisivo collocato sotto le finestre.

Poco distante una porta invisibile si richiuse rumorosamente e Jack gettò un'occhiata in tempo per vedere Etheridge, l'anziano biondo, che se ne tornava al suo alloggio dopo aver sistemato gli studenti del primo anno.

Arrivato all'angolo della palazzina fu investito da una folata di vento gelido. Dietro c'era una porta stretta con una targa (questa volta di legno con lettere nere in stile gotico) con scritto ENTRATA 5. Dopo la porta c'erano finestre che arrivavano fino all'angolo seguente.

E qui, alla terza finestra, grande sollievo. Perché qui c'era Richard Sloat, con gli occhiali saldamente agganciati alle orecchie, il nodo della cravatta ben stretto, le mani solo lievemente macchiate d'inchiostro. Sedeva composto al suo scrittoio a leggere un librone con l'attenzione di chi ci ha messo in palio la vita. Era messo di tre quarti rispetto a Jack, che ebbe il tempo di contemplare il suo amato e familiare profilo, prima di tamburellare sul vetro.

La testa di Richard si sollevò di scatto dal libro. Lo vide guardarsi attorno disorientato, spaventato e sorpreso dal rumore improvviso.

«Richard», lo chiamò a voce bassa e fu ripagato dall'immediato girarsi dell'amico attonito. Per un attimo lo stupore gli diede le sembianze di un idiota.

«Apri la finestra», lo esortò Jack formulando le parole con mimica esagerata perché l'amico potesse leggergliele sulla bocca. Richard si alzò muovendosi ancora con tutta la lentezza dello sbigottimento. Allora Jack gli fece il gesto della finestra che si apriva. Quando Richard arrivò alla finestra posò le mani sul telaio e lo guardò con aria severa per un momento. La sua espressione era quella critica e stizzita del giudizio negativo che dava alla sua faccia sporca, ai suoi capelli stopposi, alla maniera così poco ortodossa con cui gli si era presentato e tante altre cose ancora. Che cos'altro stai combinando questa volta? Finalmente sollevò la finestra a ghigliottina.

«Be'», esordì, «la gente usa prevalentemente la porta.»

«Ottimo», ribatté Jack quasi ridendo. «Quando sarò come la gente, probabilmente lo farò anch'io. Tirati indietro, vuoi?»

Come se colto con la guardia abbassata, Richard indietreggiò di qualche passo.

Jack si issò sul davanzale e scivolò all'interno, testa in avanti. «Ufff...»

«Okay, salve», lo salutò Richard. «Immagino che mi faccia persino piacere vederti, ma fra pochissimo devo andare a colazione. Intanto tu potresti magari farti una doccia. Tutti gli altri saranno giù alla mensa.» S'interruppe, quasi sorpreso di aver parlato tanto.

Jack si rese conto allora che con lui ci sarebbe voluta della diplomazia. «Potresti portarmi qualcosa da mangiare? Ho una fame da lupo.»

«Perfetto», commentò Richard. «Prima fai diventare tutti scemi, compreso mio padre, scappandotene senza dire dove vai, poi penetri qui come un ladro e adesso mi chiedi di rubare cibo per te. Ottimo. Davvero perfetto.»

«Abbiamo molte cose da dirci», replicò Jack.

«Se», cominciò Richard, curvandosi lievemente in avanti con le mani in tasca, «se riparti oggi stesso per il New Hampshire o se mi lasci telefonare a mio padre per dirgli di venire qui a prenderti, ruberò qualcosa da mangiare per te.»

«Sono pronto a parlare con te di qualsiasi cosa, Richie. Qualsiasi cosa. Parleremo anche del mio ritorno, te lo prometto.»

Richard annuì. «Ma si può sapere dove diavolo sei stato?» I suoi occhi scintillavano dietro le lenti spesse. Poi uno sbatter di ciglia improvviso, vistoso. «E come diavolo puoi giustificare la maniera in cui tu e tua madre state trattando mio padre? Cazzo, Jack. Davvero credo che faresti bene a tornare di corsa in quel posto del New Hampshire.»

«Tornerò», ripeté Jack. «È una promessa. Ma prima devo procurarmi una certa cosa. Posso sedermi da qualche parte? Sono stanco morto.»

Richard gli indicò il letto, poi, tipicamente, mosse la mano in direzione della seggiola del suo scrittoio, che era più vicina a Jack.

Tonfi di porte nel corridoio. Voci sonore passarono davanti a quella di Richard insieme con lo scalpiccio di molti piedi.

«Hai letto per caso della Casa del Sole?» domandò Jack. «Ci sono stato. Due miei amici ci sono morti e, perché tu lo sappia, Richard, uno dei due era un lupo mannaro.»

La faccia di Richard si contrasse. «Be', questa è davvero una bella coincidenza, perché...»

«Sono stato davvero alla Casa del Sole, Richard.»

«Ho capito. Okay. Tornerò fra mezz'ora con qualcosa da mangiare. Poi dovrò spiegarti chi vive qui accanto. Però questa è roba da Seabrook Island, vero? Rispondi sinceramente!»

«Sì, credo di sì.» Jack si lasciò scivolare dalle spalle il loden di Myles P. Kiger abbandonandolo sulla spalliera della seggiola.

«Tornerò», disse Richard. Dirigendosi alla porta lo salutò con qualche titubanza.

Jack si tolse velocemente le scarpe e chiuse gli occhi.

 

3

 

La conversazione alla quale Richard aveva alluso parlando di «roba da Seabrook Island», e che Jack ricordava bene quanto ricordava il suo amico, aveva avuto luogo durante l'ultima settimana della loro ultima visita a quella località.

Quasi ogni anno, quando Phil Sawyer era ancora vivo, le due famiglie erano andate in vacanza assieme. L'estate seguente alla sua morte, Morgan Sloat e Lily Sawyer avevano cercato di tenere viva la tradizione e avevano prenotato per tutti e quattro nel grande e antico albergo di Seabrook Island, South Carolina, che aveva visto alcune delle loro estati più felici. L'esperimento era fallito.

I ragazzi erano abituati a farsi compagnia. Erano anche abituati a posti come Seabrook Island. Richard Sloat e Jack Sawyer ne avevano passati tanti di questi alberghi in località di villeggiatura e avevano calpestato innumerevoli vaste spiagge nell'arco della loro infanzia. Adesso però il clima si era misteriosamente alterato e nella loro vita aveva fatto il suo ingresso una sorta di imbarazzo, una serietà inattesa.

La morte di Phil Sawyer aveva cambiato il colore del futuro. Jack cominciava proprio in quell'ultima estate a Seabrook a pensare che forse non aveva voglia di occupare la scrivania di suo padre, che forse desiderava qualcosa di più dalla vita. In che senso di più? Ebbene, fra le poche cose di cui si sentiva estremamente sicuro, c'era che questa potente ambizione ad "avere di più" era collegata ai miraggi.

Acquisendo questa nozione, si era anche reso conto di un altro aspetto: cioè che l'amico Richard non solo era incapace di percepire la speciale qualità di questo "avere di più", ma addirittura mirava all'opposto. Richard voleva di meno. Richard non voleva niente che non potesse rispettare.

Nelle lente ore pomeridiane che puntualmente si ripetono in tutti i buoni luoghi di villeggiatura fra il pranzo e il cocktail, Jack e Richard se ne erano andati per conto proprio. Non molto lontani, per la verità, solo su per una collina boscosa che si trovava dietro l'albergo.

Sotto di loro scintillava l'acqua della grande vasca rettangolare della piscina nella quale Lily Cavanaugh Sawyer nuotava avanti e indietro con efficace agilità. A uno dei tavolini sedeva il padre di Richard avvolto in un voluminoso accappatoio di spugna, con un sandwich in una mano e la cornetta del telefono nell'altra.

«È questo il genere di roba che vuoi?» aveva domandato a Richard compostamente seduto al suo fianco con un libro fra le mani (particolare tutt'altro che sorprendente): La vita di Thomas Edison.

«Quello che voglio? Quando sarò grande, vuoi dire?» Sembrava quasi che la domanda lo avesse imbarazzato. «Mah, non è male, immagino. Non so se lo voglio o no.»

«Ma sai che cosa vuoi, Richard? Hai sempre sostenuto di voler fare il chimico ricercatore», aveva insistito Jack. «Perché dici così? Che cosa significa?»

«Significa che voglio diventare chimico ricercatore.»

Jack sorrise. «Ma sai che cosa vuol dire, no? Qual è lo scopo di essere chimico ricercatore? Credi che sarebbe divertente? Credi che guarirai il cancro e salverai la vita a milioni di persone?»

Richard lo aveva guardato con molta franchezza, gli occhi lievemente ingranditi dagli occhiali che aveva cominciato a portare da quattro mesi. «No, non credo che riuscirò mai a guarire il cancro. Ma non è questo il punto. Il punto è scoprire come funzionano le cose. Il punto è che i fenomeni avvengono secondo un procedimento ordinato, nonostante le apparenze, e che si può scoprirne il meccanismo.»

«Procedimento ordinato.»

«Già. Perché stai sorridendo?»

«Tu mi crederai pazzo. A me piacerebbe trovare qualcosa che faccia apparire tutto questo, tutti questi ricconi che corrono dietro alle palline da golf e gridano al telefono, che faccia apparire tutto questo un'assurdità.»

«È già un'assurdità», aveva ribattuto Richard, senza alcuna intenzione di fare dello spirito.

«Ma non ti capita qualche volta di pensare che nella vita c'è qualcosa di più di procedimenti ordinati?» L'espressione di Richard era innocente e scettica. «Non avresti voglia di un briciolo di magia, Richard?»

«Sai, certe volte penso che tu voglia solo il caos», aveva risposto Richard, colorendosi minimamente. «Credo che tu mi prenda in giro. Se vai a caccia di magia mandi all'aria tutto quello in cui io credo. Anzi, mandi all'aria la realtà.»

«Forse non esiste una sola realtà.»

«In Alice nel paese delle meraviglie!» Richard stava perdendo le staffe.

Si era alzato avviandosi a passi sostenuti nella pineta e Jack si era reso conto che aveva fatto infuriare l'amico rivelandogli i suoi intimi pensieri che riguardavano i miraggi. Grazie alle gambe più lunghe lo aveva raggiunto in pochi secondi.

«Guarda che non ti stavo prendendo in giro», si era scusato. «Ero solo curioso di capire perché dici sempre che vuoi fare il chimico.»

Richard si era fermato di botto e lo aveva guardato con aria molto seria.

«Smettila di farmi ammattire con queste chiacchiere», gli aveva detto. «Queste sono balle da Seabrook Island. È già abbastanza dura essere fra le sei o sette persone sane di mente in tutta l'America senza vedere il mio miglior amico schizzare totalmente.»

Da quella volta in poi ogni stravaganza di Jack veniva immediatamente scartata da Richard Sloat con la definizione di «roba da Seabrook Island».

 

4

 

Quando Richard tornò dalla mensa, Jack, lavato di fresco e con i capelli bagnati e appiccicati al cranio, stava rigirando pigramente i libri di Richard, seduto al suo scrittoio. Mentre Richard entrava reggendo un tovagliolo di carta unto in cui era avvolta una razione abbastanza sostanziosa di generi alimentari, Jack si stava domandando se la conversazione imminente sarebbe stata più facile se i libri sulla scrivania fossero stati Il signore degli anelli e La collina dei conigli e non Chimica organica e Problemi matematici.

«Cosa avevate da mangiare?» domandò.

«Sei stato fortunato. Pollo fritto. Una delle poche cose fra quelle che servono qui che non ti fa compiangere l'animale che ha dato la vita sacrificandosi alla catena alimentare.» Gli consegnò il tovagliolo bisunto. Jack si avventò su quattro pezzi di pollo ben conditi che gli riempirono la testa di un aroma di incredibile squisitezza.

«Da quando ti sei messo a mangiare come se invece che parlare ragliassi?» Richard si spinse gli occhiali su per il naso e si sedette sul letto. Sotto la giacca di tweed indossava un pullover a V con un motivo marrone. Ne teneva il bordo inferiore infilato nei pantaloni.

Jack visse un attimo di dubbio chiedendosi se fosse veramente possibile parlare dei Territori a una persona così compita da infilarsi il pullover sotto la cintura.

«L'ultima volta che ho mangiato è stato ieri», disse in tono amichevole, «verso mezzogiorno. Ho un po' di fame, Richard. Grazie per avermi portato il pollo. È buonissimo. Il miglior pollo che abbia mai mangiato. Sei veramente un amico a rischiare l'espulsione per me.»

«Tu credi che sia uno scherzo, vero?» Richard si strattonò il pullover aggrottando le sopracciglia. «Se ti trovano qui, con tutta probabilità sarò espulso sul serio, perciò non fare troppo lo spiritoso. Dobbiamo trovare il sistema di farti tornare nel New Hampshire.» Poi ci fu silenzio, per un momento. Uno sguardo riflessivo da parte di Jack, uno sguardo critico da parte di Richard.

«So che vuoi che ti spieghi che cosa sto facendo, Richard», cominciò finalmente Jack con la bocca piena di carne di pollo, «e credimi, non sarà facile.»

«Sei cambiato, sai», osservò Richard. «Adesso sembri... più vecchio. Ma non è solo quello. Non sei lo stesso di prima.»

«So di essere cambiato. Anche tu saresti un po' diverso, se avessi passato quello che ho passato io da settembre a oggi.» Jack sorrise, contemplò il cipiglio di Richard e il suo abbigliamento da bravo ragazzo e capì che non sarebbe stato capace di parlargli di suo padre. No, non era assolutamente possibile. Se fosse stato il destino a farlo in sua vece, tanto meglio; ma a lui mancava il cuore d'assassino necessario per rivelazioni di tale gravità.

L'amico continuava a guardarlo con aria accigliata in attesa di conoscere la storia.

Forse per procrastinare il momento in cui avrebbe dovuto cercare di convincere Richard il Razionale della realtà di cose incredibili, gli domandò: «Quel ragazzo che occupa la stanza qui accanto, sta lasciando la scuola? Da fuori ho visto che aveva le valigie sul letto».

«Be', questo è davvero interessante», sbottò Richard. «Interessante alla luce di quello che hai detto. È vero, se ne sta andando. Anzi, se n'è già andato. Credo che debba venire qualcuno a prendere i suoi bagagli. Dio solo sa che razza di storia pazzesca caverai da questo, comunque quello qui di fianco era Reuel Gardener, il figlio di quel predicatore che gestiva l'istituto dal quale saresti fuggito.» Richard ignorò l'improvviso accesso di tosse che colse Jack. «Da ogni punto di vista sarei propenso ad affermare che Reuel non era esattamente il comune vicino di stanza, e probabilmente qui non c'è nessuno molto dispiaciuto della sua partenza. In ogni caso, proprio quando è venuta fuori quella storia dei ragazzi uccisi nella Casa diretta da suo padre, ha ricevuto il telegramma con l'ordine di andarsene da qui.»

Jack era riuscito a deglutire il boccone di pollo che per poco non lo aveva soffocato. «Il figlio del reverendo Gardener. Quell'uomo aveva un figlio? E stava qui?»

«È venuto all'inizio del semestre», rispose semplicemente Richard. «È quello che cercavo di dirti prima.»

A un tratto la Thayer School si trasformò per Jack in una minaccia che certamente Richard non avrebbe potuto comprendere. «Ma che tipo era?»

«Un sadico», rispose Richard. «Alle volte sentivo dei rumori davvero molto strani venire dalla sua stanza e una volta ho visto un gatto morto nella spazzatura, fuori sul retro, un gatto senza occhi e senza orecchie. Ma bastava vederlo per pensare che fosse il tipo di persona capace di torturare un gatto. E secondo me aveva addosso un odore come di cuoio rancido.» Rimase in silenzio per un momento calcolato con meticolosità, quindi chiese: «Davvero eri alla Casa del Sole?».

«Ci sono stato per trenta giorni. Un inferno o quanto di più vicino all'inferno si possa pensare.» Trasse un respiro osservando la faccia di Richard sempre accigliata, ma adesso almeno per metà convinta. «So che ti è difficile digerirlo, Richard, capisco, ma il ragazzo che era con me era un licantropo. E se non fosse rimasto ucciso per salvarmi la vita, adesso sarebbe qui con me.»

«Un licantropo. Con il pelo nei palmi delle mani. Che si trasforma in un mostro assetato di sangue quando c'è la luna piena.» Richard si guardò attorno con aria pensierosa.

Jack aspettò che il suo sguardo tornasse da lui. «Vuoi sapere che cosa sto facendo? Vuoi che ti spieghi perché viaggio in autostop da una parte all'altra del paese?»

«Se non lo fai mi metterò a strillare», ribatté Richard.

«Va bene. Sto cercando di salvare la vita a mia madre.» E nel pronunciare queste parole si sentì colmare da una lucidità stupefacente.

«E come diavolo vorresti farlo?» proruppe Richard. «Tua madre probabilmente è ammalata di cancro. Come mio padre ti ha detto e ripetuto, ha bisogno di medici e scienza medica... e tu te ne parti? E che cosa vorresti usare per salvare tua madre, Jack? La magia?»

Gli occhi di Jack cominciarono ad ardere. «Ci sei arrivato, Richard, vecchio mio.» Levò un braccio e si schiacciò il tessuto dell'interno del gomito sugli occhi già umidi.

«Ehi, ehi, calmati, non mi sembra il caso», riprese Richard, strattonandosi febbrilmente il pullover. «Non metterti a piangere, Jack, dai, per piacere, so che è terribile, non avevo intenzione di... solo che...» Senza rumore Richard aveva improvvisamente attraversato la stanza e adesso cercava di consolare Jack accarezzandogli la spalla.

«Non è niente», disse Jack. Riabbassò il braccio. «Ma non è una fantasticheria, Richard, comunque tu voglia pensarla.» Drizzò la schiena. «Mio padre mi chiamava Jack Viaggiante e così mi chiamava anche un vecchio che c'era ad Arcadia Beach.» Jack si augurava di non sbagliarsi e che davvero l'affetto che Richard provava per lui lo aiutasse a sintonizzarsi sulla sua lunghezza d'onda. Quando lo guardò in faccia, vide che non si sbagliava. L'amico sembrava ora preoccupato, intenerito, disponibile.

Jack cominciò la sua storia.

 

5

 

Attorno ai due ragazzi, la vita della Nelson House procedeva con i suoi momenti di quiete e di fracasso alla maniera di tutti i collegi del mondo, nel suo tradizionale contrappunto di grida e schiamazzi e risa. Ogni tanto un rumore di passi dietro la porta, ma nessuno che si fermasse. Dalla stanza sovrastante giungevano tonfi regolari e musica occasionale. Cominciò raccontando a Richard dei miraggi. Dai miraggi passò a Svelto Parker. Gli descrisse la voce che gli parlava dall'imbuto di sabbia ruotante. Poi raccontò a Richard di come avesse sorbito il succo magico di Svelto e fosse flippato per la prima volta nei Territori.

«Ma secondo me era solo vino scadente, vinaccio da alcolizzati squattrinati», spiegò Jack. «In seguito, quando ormai non ne avevo più, ho scoperto che non ne avevo bisogno per flippare. Potevo farlo anche senza niente.»

«Okay», commentò Richard senza sbilanciarsi.

Jack tentò appassionatamente di dare a Richard una rappresentazione dei Territori parlandogli della pista sulla quale transitavano i carretti, del palazzo estivo, delle distorsioni e degli aspetti più peculiari di quei luoghi. Del capitano Farren, della Regina agonizzante. Da qui giunse a parlare dei Gemellanti e di Osmond. Della scena al villaggio di Ognimmani; della Via degli Avamposti che era la via dell'ovest. Mostrò a Richard la sua piccola collezione di oggetti preziosi, il plettro e la biglia e la moneta. Richard se li rigirò fra le dita e glieli restituì senza un commento. Poi Jack rivisse il suo angoscioso soggiorno a Oatley. Richard ascoltò in silenzio, ma con gli occhi sgranati.

Prudentemente Jack omise di parlare di Morgan Sloat e di Morgan di Orris quando diede il resoconto degli avvenimenti nell'area di parcheggio di Lewisburg, nell'Ohio.

Poi Jack dovette descrivere Lupo come lo aveva visto la prima volta, un gigante gioviale in salopette, e allora sentì che gli riaffioravano le lacrime agli occhi. Ma non stupì più che tanto Richard quando cominciò a piangere nel raccontare di come cercava invano di convincere Lupo a salire su qualche veicolo, nel confessare come si spazientiva con il suo compagno. Ma il semplice fatto di essersi confidato lo fece star bene a lungo. Riuscì a riferire tutta la storia della prima muta di Lupo senza piangere e senza farsi venire un groppo in gola. Poi fu di nuovo nei guai. La collera gli permise di parlare a ruota libera finché arrivò a Ferd Janklow e qui si sentì bruciare di nuovo gli occhi.

Richard restò per molto tempo zitto. Poi si alzò e andò a prendere un fazzoletto da un cassetto del comò. Jack si soffiò rumorosamente il naso.

«Ecco che cosa è successo», concluse Jack. «Almeno nel complesso.»

«Che cosa hai letto di recente? Che film hai visto?»

«Vaffanculo», sbottò Jack. Si alzò e andò a prendere il suo zaino, ma Richard gli afferrò un polso.

«Non credo che tu ti sia inventato tutto. Anzi, non credo che tu ti sia inventato un bel niente.»

«Davvero?»

«Davvero. Non so esattamente che cosa penso, ma sono sicuro che non mi stai volontariamente raccontando delle frottole.» Ritirò la mano. «Credo che tu sia stato alla Casa del Sole, questo sì, ci credo. E credo che tu avessi un amico che si chiamava Lupo e che è morto in quella casa. Ma devi scusarmi se non riesco a prendere sul serio i Territori e se non posso accettare che il tuo amico fosse un licantropo.»

«Allora tu credi che io sia matto?»

«Credo che tu sia nei guai. Ma non telefonerò a mio padre e non ti obbligherò a ripartire subito. Per questa notte puoi dormire qui, in questo letto. Se sentiamo che arriva il signor Haywood che viene a controllare, vuol dire che ti nasconderai sotto il letto.» Richard aveva assunto i toni di un dirigente. Si piazzò le mani sui fianchi e contemplò con occhio critico la stanza. «Devi riposare. Sono sicuro che in parte il problema è lì. Ti hanno ammazzato di lavoro in quel posto orribile e ti hanno manomesso il cervello e hai bisogno di riposare.»

«Questo sì», ammise Jack.

Richard ruotò gli occhi verso l'alto. «Fra poco devo assentarmi perché c'è la partita di pallacanestro, ma tu puoi nasconderti qui e più tardi ti porterò dell'altro cibo dalla mensa. Ora l'importante è che hai bisogno di riposo e hai bisogno di tornare a casa tua.»

Jack disse: «Il New Hampshire non è casa mia».

 

30

Stranezze a Thayer

 

1

 

Dalla finestra Jack vedeva ragazzi in cappotto che andavano e venivano dalla biblioteca e dalle altre palazzine della scuola. Etheridge, l'anziano che gli aveva rivolto la parola quel mattino, passò frettoloso con la sciarpa che gli svolazzava dietro la schiena.

Richard prese una giacca sportiva di tweed dall'armadietto accanto al letto. «Niente potrà farmi pensare che tu non debba tornare nel New Hampshire. Adesso devo andare a pallacanestro altrimenti l'allenatore Frazer mi rifila dieci giri di punizione appena torna. Oggi abbiamo un altro allenatore e Frazer ha giurato che ci seppellisce, se saltiamo l'allenamento. Vuoi che ti presti qualche indumento pulito? Ho almeno una camicia che ti deve andare bene. Me l'ha spedita mio padre da New York, ma me ne hanno mandata una della taglia sbagliata.»

«Vediamo.» Gli abiti di Jack erano decisamente immondi. Richard gli diede una camicia bianca con i bottoni al colletto ancora nella sua busta di plastica. «Oh, grazie», disse Jack. Sfilò la camicia dalla busta e cominciò a togliere gli spilli. Gli sarebbe andata quasi bene.

«C'è anche una giacca che puoi provare», aggiunse Richard. «Quel blazer appeso in fondo all'armadio. Te lo provi, va bene? E puoi metterti una delle mie cravatte. Nel caso dovesse entrare qualcuno. Di' che sei del Saint Louis Country Day e che sei qui per uno scambio. Ne facciamo due o tre all'anno. Ragazzi di questa scuola vanno là e ragazzi di là vengono qui e si lavora al giornale scolastico.» Andò alla porta. «Tornerò prima di cena per vedere come ti va.»

Di lì a pochi minuti la Nelson House restò immersa nel silenzio. Dalla finestra della camera di Richard Jack scorgeva alcuni studenti seduti dietro le vetrate della biblioteca. Nessuno che percorresse i sentieri o il prato di erba brunita dall'inverno. Una campanella squillava insistentemente annunciando l'inizio della quarta ora. Jack distese le braccia e sbadigliò. Sentiva risorgere dentro di sé un senso di sicurezza avendo per ambiente una scuola con tanti rituali arcinoti, campanelle, inizio e fine di lezioni, allenamenti di pallacanestro. Forse gli sarebbe riuscito di trattenersi per un giorno ancora. Forse gli sarebbe stato persino possibile telefonare a sua madre da uno dei telefoni della Nelson House. E sicuramente avrebbe riguadagnato un po' di sonno perduto.

Andò all'armadio e trovò il blazer dove Richard gli aveva detto. Aveva ancora l'etichetta appesa a una manica. Sloat gliel'aveva spedito da New York, ma Richard non l'aveva mai indossato. Come la camicia il blazer era di una misura troppo piccola per Jack e gli stringeva sulle spalle; ma il taglio non era attillato e le maniche lasciavano vedere un centimetro di polsini bianchi della camicia. Jack prelevò una cravatta dal gancio sull'antina: rossa con un disegno di ancore blu. Si passò la cravatta intorno al collo e fece il nodo. Si esaminò allo specchio e scoppiò a ridere. Ecco che finalmente ce l'aveva fatta. Contemplò l'elegante blazer nuovo, la sua cravatta da club, la camicia bianca come neve, i suoi jeans stropicciati. Proprio così. Un collegiale.

 

2

 

Jack scoprì che Richard era diventato un ammiratore di John McPhee e Lewis Thomas e Stephen Jay Gould. Dai libri che teneva allineati negli scaffali, scelse Il pollice del panda, perché gli piaceva il titolo e tornò a letto.

Richard non rientrò dall'allenamento di pallacanestro per un tempo che gli sembrò lunghissimo. Jack si mise a passeggiare avanti e indietro nella stanzetta. Non capiva perché Richard tardasse tanto, ma la sua immaginazione gli proponeva una calamità dopo l'altra.

Dopo che aveva controllato il suo orologio per la quinta o sesta volta, notò che non c'erano studenti in vista.

Qualunque cosa fosse accaduta a Richard, era accaduta all'intera scolaresca.

Il pomeriggio morì. Cominciò a pensare che fosse morto anche Richard. Forse era morta tutta la Thayer School... e lui era un portatore di peste, un portatore di morte. Non aveva più mangiato dopo i pezzi di pollo che Richard aveva trafugato dalla mensa e tuttavia non aveva appetito. Sedette, oppresso dall'avvilimento. Recava distruzione ovunque andasse.

 

3

 

Poi ci furono di nuovo passi nel corridoio.

Dal piano superiore gli giunse ora, sommesso, il ritmo di un contrabbasso. I passi si fermarono davanti alla sua porta. Jack vi si precipitò.

Era Richard. Due ragazzi con capelli come barba di granoturco e la cravatta a mezz'asta gettarono dentro un'occhiata continuando per il corridoio. La musica rock era più forte fuori della stanza.

«Dove siete finiti tutto il pomeriggio?» volle sapere Jack.

«Mah. È stato tutto molto strano», rispose Richard. «Hanno sospeso tutte le lezioni pomeridiane. Il signor Dufrey non ha nemmeno permesso ai ragazzi di tornare agli spogliatoi. Poi abbiamo dovuto andare tutti all'allenamento di pallacanestro, e qui era ancora più strano.»

«Chi è il signor Dufrey?»

Richard lo guardò come se fosse appena cascato fuori da una culla. «Chi è il signor Dufrey? È il preside, ecco chi è. Ma non sai proprio niente di questa scuola?»

«No, ma comincio a farmi qualche idea. Che cosa c'era di così strano all'allenamento?»

«Ricordi che ti avevo detto che per oggi l'allenatore Frazer aveva mandato un suo collega? Ebbene, aveva anche avvertito che avrebbe punito chiunque avesse cercato di saltare l'allenamento. Così io mi ero messo in testa che questo suo collega fosse una specie di Al Maguire, capisci, uno di quelli davvero in gamba. La Thayer School non ha mai avuto una buona tradizione sportiva, comunque io pensavo che il suo sostituto fosse uno molto speciale.»

«Lasciami indovinare. Il supplente aveva invece l'aria di non aver mai avuto a che fare con lo sport.»

Richard sollevò la testa stupito. «Infatti», confermò. «Proprio così.» Contemplò Jack come soppesandolo. «Non faceva che fumare. Aveva i capelli troppo lunghi e unti. Non sembrava affatto un allenatore. Anzi, direi piuttosto che era il tipo che gli allenatori calpesterebbero volentieri. E anche gli occhi non erano normali. Scommetto che fuma erba.» Richard si strattonò il pullover. «E non mi pare che sapesse di pallacanestro. Non ci ha fatto nemmeno provare gli schemi, che è quello che facciamo di solito dopo il riscaldamento. Ci siamo messi a correre, tirando a canestro, mentre lui gridava, ridendo, come se la gente che gioca a pallacanestro fosse lo spettacolo più ridicolo che avesse mai visto in vita sua. Ma tu hai mai conosciuto un allenatore che trovi da ridere nello sport? E anche il riscaldamento è stato strano. Ci ha detto: "Okay, fate delle flessioni" e ha fumato la sua sigaretta. Senza contare, senza dare la cadenza, ciascuno che andava per conto proprio. E poi salta su con un "Okay, adesso sgranchitevi un po' le gambe". Era un tipo... davvero selvatico. Credo che domani presenterò un reclamo all'allenatore Frazer.»

«Io non presenterei reclami né a lui né al preside», lo ammonì Jack.

«Oh, ho capito», ribatté Richard. «Il signor Dufrey è uno di loro. Uno dei Territori.»

«O lavora per loro», suggerì Jack.

«Ma ti rendi conto che con questo sistema riesci a giustificare qualsiasi cosa? Qualsiasi cosa esca dalla norma? È troppo facile... spiegare tutto così. Sono i matti che si comportano in questo modo. Tu fai collegamenti che non si basano sulla realtà.»

«E vedo cose che non ci sono.»

Richard si strinse nelle spalle e, a dispetto dell'ostentata indifferenza del gesto, la sua faccia era contrita. «L'hai detto.»

«Aspetta un momento», riattaccò Jack. «Ti ricordi quando ti ho raccontato di quell'edificio crollato ad Angola?»

«Sì.»

«Bene. Io credo che quell'incidente sia avvenuto per causa mia.»

«Jack, tu sei...»

Jack disse: «Pazzo, lo so. Senti, credi che qualcuno mi tradirebbe se uscissi per andare a vedere il telegiornale?».

«Ne dubito. A quest'ora studiano quasi tutti. Perché?»

Perché voglio farmi un'idea di quello che sta succedendo qua in giro, pensò Jack senza dirlo. Piccoli incendi, un terremotino... indizi che stanno a dimostrare che arrivano. Per me. Per noi.

«Ho bisogno di cambiare aria, Richard, vecchio mio», rispose a voce alta e seguì l'amico per il corridoio color verde acqua.

 

31

Thayer va all'inferno

 

1

 

Jack si accorse per primo del cambiamento e capì che cosa era successo. Era stato mentre Richard era fuori e lui era particolarmente sensibilizzato.

L'aspra musica del piano di sopra era scomparsa. Il televisore della sala comune si era addormentato.

Richard si girò verso Jack e aprì la bocca per parlare.

«Non mi piace», lo precedette Jack. «I tam tam indigeni non suonano più. C'è troppo silenzio.»

«Ha, ha», rispose Richard, per niente divertito.

«Richard, posso farti una domanda?»

«Sì, certo.»

«Hai paura?» Si capiva che Richard moriva dalla voglia di rispondere: No, e perché mai? A quest'ora è sempre tutto tranquillo alla Nelson House. Per sua sfortuna, però, Richard era del tutto incapace di mentire, caro vecchio Richard. Jack provò un moto d'affetto.

«Sì», rispose Richard. «Ho un po' paura.»

«Posso chiederti un'altra cosa?»

«Chi te lo vieta.»

«Perché stiamo bisbigliando?»

Richard lo contemplò a lungo senza parlare, poi si incamminò di nuovo per il corridoio verde.

Le porte delle altre stanze erano o spalancate o almeno socchiuse. Jack avvertì un odore a lui ben noto nei pressi della stanza numero quattro e con le dita tese spinse del tutto l'uscio semiaperto.

«Chi è che si fa di erba?» domandò.

«Come?» rispose Richard, colto alla sprovvista.

Jack fiutò rumorosamente. «Non senti?»

Richard tornò sui suoi passi per guardare nella stanza. Entrambe le lampade erano accese. Su uno scrittoio c'era un libro di storia aperto, mentre sull'altro c'era un numero di Heavy Metal. Numerosi manifesti ravvivavano le pareti. Sulla rivista musicale aperta era posata una cuffia dalla quale uscivano sottili squittii melodici.

«Se c'è rischio di finire espulsi perché si permette a un amico di dormire sotto il letto, dubito che uno che fuma erba se la cavi con uno scappellotto, no?» commentò Jack.

«Certo che ti buttano fuori, se fumi.»

Richard fissava lo spinello come se ne fosse ipnotizzato. Jack non lo aveva visto così stupefatto e smarrito nemmeno quando gli aveva mostrato le bruciature che gli si andavano rimarginando fra le dita.

«La Nelson House è vuota», stabilì Jack.

«Non essere ridicolo!» sbottò Richard, seccamente.

«Ti dico che è vuota.» Jack gli indicò il corridoio. «Siamo rimasti solo noi e non è possibile che una trentina di ragazzi riescano a uscire da un convitto senza far rumore. Questo è perché non sono usciti. Sono scomparsi.»

«Già, sono finiti nei Territori.»

«Questo non lo so», precisò Jack. «Forse sono ancora qui, ma su un livello lievemente diverso dal nostro. Forse sono finiti laggiù, forse sono a Cleveland, ma non sono dove ci troviamo noi.»

«Chiudi quella porta», gli ordinò bruscamente Richard e, visto che Jack non ubbidiva abbastanza celermente, eseguì da sé.

«Non vuoi spegnere lo...»

«Non voglio nemmeno toccarlo», dichiarò Richard. «Dovrei denunciarli, sai? Dovrei riferire al signor Haywood.»

«Lo faresti?» gli domandò Jack affascinato.

Richard sembrò mortificato. «No... probabilmente no. Ma non mi piace.»

«Non è regolare», osservò Jack.

«Infatti.» Gli occhi di Richard guizzarono verso di lui dietro le lenti degli occhiali come per dirgli che le cose stavano esattamente così, che aveva colpito nel segno e che se non gli andava bene, peggio per lui. S'incamminò di nuovo. «Voglio sapere che cosa diavolo sta succedendo», annunciò, «e stai pur sicuro che lo scoprirò.»

Solo che potrebbe essere assai più insidioso per la tua salute che un tiro di marijuana, Richie, pensò Jack, seguendo l'amico.

 

2

 

Si fermarono in salotto a guardare fuori. Richard indicò il quadrato. Nelle ultime luci del giorno, Jack scorse un gruppo di ragazzi raccolti disordinatamente attorno alla statua di Elder Thayer.

«Stanno fumando!» esclamò stizzito Richard. «Nel bel mezzo del quadrato! Fumano!»

Jack pensò immediatamente all'odore di marijuana che aveva sentito in corridoio.

«Per fumare fumano», disse Jack, «ma non il genere di sigarette che vendono nei distributori automatici.»

Richard fece risuonare rabbiosamente il vetro della finestra con le nocche. Jack vide come in quel momento avesse del tutto dimenticato l'inquietante stranezza del dormitorio deserto, il supplente in giacca di pelle che fumava una sigaretta via l'altra, la presunta aberrazione mentale che a suo avviso aveva dato origine al suo bizzarro racconto. La sua espressione scandalizzata stava a dire: Quando un gruppo di studenti si mette a fumare spinelli a pochi metri dalla statua del fondatore della scuola, è come se qualcuno cercasse di raccontarmi che la terra è piatta o che qualche volta i numeri primi possono essere divisibili per due o qualcosa di ugualmente assurdo.

Il cuore di Jack era pieno di pietà per l'amico, ma era anche colmo di ammirazione per un atteggiamento che agli occhi dei suoi compagni doveva apparire così reazionario e persino eccentrico. Ancora una volta gli venne da chiedersi se Richard avrebbe sopportato i traumi che si andavano delineando per l'immediato futuro.

«Richard, quei ragazzi non sono della Thayer, vero?»

«Mio Dio, ma sei davvero ammattito, Jack! Sono gli anziani. Li riconosco tutti! Quello là con lo stupido casco di pelle da pilota è Norrington. Quello con i calzoni della tuta verdi è Buckley. E poi vedo Garson... Littlefield... e quello con la sciarpa è Etheridge», concluse.

«Sei sicuro che sia proprio Etheridge?»

«Certo che è lui!» esclamò Richard. A un tratto fece scattare la serratura della finestra, alzò il vetro e si affacciò nell'aria fredda.

Jack cercò di tirarlo indietro. «Richard... ascoltami...»

Ma Richard non voleva saperne. Si sporse nel crepuscolo.

«Ehi!»

No, non attirare la loro attenzione, Richard, per l'amor di Dio...

«Ehi, ragazzi, Etheridge! Norrington! Littlefield! Che cosa credete di fare?»

Conversazioni e risa cessarono. Quello che portava la sciarpa di Etheridge si girò al suono della voce di Richard. Sollevò leggermente la testa per guardarli. Il suo volto fu illuminato dalle luci della biblioteca e dall'imbronciato bagliore del tramonto invernale. In un gesto istintivo, Richard si portò le mani alla bocca. La parte destra della sua faccia somigliava in effetti a quella di Etheridge; ma si trattava di un Etheridge più maturo, di un Etheridge che era stato in parecchi posti che i bravi collegiali non frequentano e che aveva fatto parecchie cose che i bravi collegiali non fanno. L'altra metà era una maschera di cicatrici, uno spicchio scintillante che poteva anche essere un occhio che sbirciava da un cratere al centro di una scomposta tumescenza sotto la fronte. Pareva una biglia che fosse stata affondata in una pozza di sego semiliquefatto. Dall'angolo sinistro della bocca gli sporgeva una lunga zanna ricurva.

È il suo Gemellante, concluse in tutta calma Jack. Quello lì è il Gemellante di Etheridge. Saranno tutti Gemellanti? Uno per Littlefield, uno per Norrington, e così via? Non è possibile, no?

«Sloat!» gridò il Gemellante di Etheridge. Avanzò di qualche passo. Ora la luce dei lampioni gli cadeva direttamente sulla faccia deturpata.

«Chiudi la finestra», bisbigliò Richard. «Chiudi la finestra. Mi sono sbagliato. Somiglia un po' a Etheridge, ma non è lui. Forse è il suo fratello maggiore, forse qualcuno gli ha schizzato acido per batterie sulla faccia e adesso è diventato matto, ma non è Etheridge. Chiudi la finestra, Jack. Chiudi la finestra subito...»

Il Gemellante di Etheridge venne avanti dinoccolato. Sorrideva. La sua lingua, spaventosamente lunga, gli cascò fuori dalla bocca come una coccarda che si srotola al vento.

«Sloat! Dacci il tuo passeggero!»

Jack e Richard si voltarono contemporaneamente a scambiarsi un'occhiata tesa.

Un ululato fremette nella notte... perché ormai era notte: il crepuscolo era finito.

Per un attimo Jack vide qualcosa di molto simile a odio autentico negli occhi dell'amico, un ricordo di suo padre. Perché sei venuto proprio qui, Jack? Perché hai voluto portarmi quest'orrore? Perché hai dovuto portare qui questa dannata robaccia da Seabrook Island?

«Vuoi che me ne vada?» gli domandò a bassa voce Jack.

Ancora un attimo, poi quell'espressione di rancore che Richard aveva negli occhi cedette alla sua naturale bontà d'animo. «No», rispose passandosi distrattamente le mani fra i capelli. «No, tu non vai da nessuna parte. Ci sono... ci sono cani selvatici là fuori. Cani selvatici, Jack! In una scuola! Cioè... Gesù, ma li hai visti?»

«Sì, li ho visti, Richie», rispose sommessamente Jack, mentre Richard finiva di scompigliarsi del tutto i capelli fino a poco prima perfettamente pettinati.

Il compostissimo amico di Jack cominciava ad assomigliare ad Archimede Pitagorico.

«Devo chiamare Boynton, del servizio di sicurezza, ecco che cosa devo fare», dichiarò Richard. «Chiamare Boynton o la polizia o...»

Dagli alberi dall'altra parte del quadrato giunse un ululato, salì dalle ombre che si andavano addensando nelle fronde un urlo cupo e crescente che era quasi umano. Richard girò gli occhi da quella parte con la bocca che gli tremava come quella di un vecchio infermo, poi rivolse uno sguardo supplichevole a Jack.

«Chiudi la finestra, Jack, okay? Mi sento la febbre. Ho paura di aver preso freddo.»

«Subito, Richard.» Jack chiuse la finestra soffocando come meglio poteva quell'ululato.

 

32

«Dacci il tuo passeggero!»

 

1

 

«Aiutami, Richard», grugnì Jack.

«Non voglio spostare il comò, Jack», protestò Richard con voce petulante. Le occhiaie scure che aveva sotto gli occhi erano ancora più pronunciate, ora che erano stati in salotto. «Quello non è il suo posto.»

Dal quadrato venne di nuovo quel verso.

Il letto era davanti alla porta. La stanza di Richard appariva ora completamente trasformata. Richard contemplava come frastornato tanto disastro. Andò al suo letto e tolse le coperte. Ne consegnò una a Jack senza parlare, poi distese per terra la sua. Si tolse dalle tasche spiccioli e portafogli che depositò con cura sul comò. Poi si sdraiò sulla sua coperta, se ne ripiegò i lembi sul corpo e così rimase, con gli occhiali ancora addosso e un'espressione di muto mistero.

Il silenzio all'esterno era palpabile e onirico, rotto solo dal rombo lontano dei grossi autocarri che transitavano sull'autostrada. La Nelson House era invece immersa in un silenzio innaturale.

«Non voglio parlare di quello che c'è fuori», dichiarò Richard. «Ma voglio il letto davanti alla porta.»

«Okay, Richard», rispose Jack conciliante. «Non ne parleremo.»

«Buonanotte, Jack.»

«Buonanotte, Richard.»

Richard gli rivolse un sorriso che era fioco e terribilmente stanco; c'era però in esso abbastanza affetto fraterno da riscaldare e contemporaneamente addolorare il cuore di Jack. «Sono contento che sei venuto», disse Richard, «e domani mattina parleremo di tutta questa storia. Sono sicuro che domani mi sembrerà tutto molto più logico. Intanto mi sarà passata questa febbre che mi è venuta.»

Si girò sul fianco destro e chiuse gli occhi. Cinque minuti dopo, nonostante il duro giaciglio, era addormentato.

Jack rimase seduto a lungo a guardare nelle tenebre. Ogni tanto vedeva i fari di qualche automobile che passava in Springfield Avenue; altre volte aveva l'impressione che ogni fonte di luce si fosse fulminata, fari e lampioni, come se l'intera Thayer School continuasse a scivolare fuori dalla realtà per rimanere sospesa in un limbo e riapparire poco dopo.

Si stava alzando un vento. Jack lo sentiva scrollare le ultime foglie semicongelate degli alberi del quadrato; lo sentiva spingere i rami gli uni contro gli altri producendo un suono di ossa; lo sentiva fischiare gelido fra le palazzine.

 

2

 

«Quel tizio sta venendo qui», annunciò Jack con apprensione. «Il Gemellante di Etheridge.»

«Chi?»

«Lascia perdere. Torna a dormire. È meglio che non vedi.»

Ma Richard si stava mettendo a sedere. Prima che i suoi occhi si fissassero su quell'individuo dinoccolato e vagamente deforme che stava venendo verso la Nelson House, la sua attenzione fu attirata dall'atmosfera che pesava sull'intera scuola e fu profondamente colpito, tremendamente spaventato.

L'edera della Monkson Fieldhouse che fino a quella mattina era stata scheletrica ma ancora di un pallido verde, era ora improvvisamente ingiallita. Sloat! Dacci il tuo passeggero!

A un tratto Richard provò il desiderio imperioso di tornare a dormire: dormire fino all'esaurimento della sua influenza (si era svegliato concludendo che poteva essere solo un'influenza; non era un raffreddore o una febbriciattola, bensì un'influenza vera e propria); quest'influenza e questa febbre che gli provocava queste orribili allucinazioni. Aveva fatto molto male ad affacciarsi a quella finestra aperta... e anche prima, a permettere a Jack di scavalcare il davanzale ed entrare in camera sua. Questo pensò Richard e subito si sentì pieno di senso di colpa.

 

3

 

Jack gli lanciò una rapida occhiata e dal pallore del suo viso e dallo strabuzzare dei suoi occhi vide che Richard si avvicinava sempre di più al Magico Paese del Sovraccarico.

La creatura che era fuori era di statura bassa e contro lo sfondo bianchiccio della brina sembrava uno gnomo arrampicatosi da sotto qualche ponte, con mani unghiute che gli arrivavano quasi alle ginocchia. Indossava un giaccone con cappuccio dell'esercito con ETHERIDGE scritto sulla tasca sinistra. Il giaccone era aperto e sotto di esso Jack vedeva una camicia stropicciata e lacera con una macchia scura che poteva essere di sangue o di vomito. La creatura portava anche una cravatta spiegazzata con una serie di E maiuscole intessute nella stoffa; su di essa erano rimasti appiccicati un paio di grumi simili a grottesche spille.

Solo metà di questa nuova faccia di Etheridge funzionava bene. Aveva terra nei capelli e foglie sui vestiti.

«Sloat! Dacci il tuo passeggero!»

C'era qualcosa di affascinante nei suoi occhi che vibravano incredibilmente nelle orbite come i rebbi di un diapason. Era difficile non lasciarsene catturare.

«Richard!» grugnì. «Non guardarlo negli occhi.»

Richard non rispose. Contemplava con l'aria stupefatta di un drogato questa replica deforme di Etheridge.

Spaventato, Jack lo colpì alla spalla. «Oh», sospirò Richard. Poi afferrò la mano di Jack e se la premette contro la fronte. «Sono molto caldo?»

Jack ritirò la mano dalla sua fronte che era solo tiepida.

«Abbastanza», mentì.

«Lo sapevo», esclamò Richard con sincero sollievo. «Devo andare all'infermeria, Jack. Mi sa che ho bisogno di un antibiotico.»

«Daccelo, Sloat!»

«Spostiamo il comò davanti alla finestra», disse Jack.

«Tu non corri alcun pericolo, Sloat!» gridò Etheridge. Sorrideva, rassicurante... o per meglio dire la metà destra della sua faccia sorrideva in un'espressione rassicurante; la sinistra era solo un cadaverico sconquasso.

«Come fa ad assomigliare tanto a Etheridge?» domandò Richard con calma innaturale. «Come mai la sua voce ci arriva attraverso il vetro così distinta? Che cosa gli è successo alla faccia?» Poi la sua voce acquisì un timbro più stridulo e pervaso di apprensiva irrequietudine nel formulare un'ultima domanda, quella che almeno per lui in quel momento era di importanza vitale: «Perché ha la cravatta di Etheridge, Jack?».

«Non lo so», rispose Jack. Poco ma sicuro che siamo di nuovo a Seabrook Island, Richie, e mi sa che qui avremo da ballare fino a vomitare.

«Daccelo, Sloat, o veniamo a prenderlo noi!»

L'essere-Etheridge mostrò l'unica zanna in un feroce ghigno da cannibale.

«Mandaci fuori il tuo passeggero, Sloat. Tanto è morto! È morto e se non ce lo mandi fuori subito, fra poco sentirai come puzza!»

«Aiutami a spostare questo cavolo di comò!» sibilò Jack.

«Sì, si, certo. Spostiamo il comò e poi io mi metto giù e forse più tardi vado in infermeria. Che cosa dici, Jack? Ti sembra una buona idea?» Con gli occhi scongiurava Jack di dargli una risposta affermativa.

«Vedremo», disse Jack. «Ogni cosa a suo tempo. Adesso il comò. Potrebbero mettersi a lanciare pietre.»

 

4

 

Non molto tempo dopo Richard, di nuovo sopraffatto dal sonno, cominciò a borbottare e a gemere. Lo spettacolo che offriva era angosciante in sé, ma peggiorò quando dagli angoli degli occhi cominciarono a scivolargli le lacrime.

«Non posso darvelo», gemeva Richard con la vocetta di un bambino di cinque anni. Jack lo guardava con la pelle gelata. «Non posso darvelo, voglio il mio papà. Qualcuno mi dica per piacere dov'è il mio papà. È entrato nell'armadio, ma adesso non è nell'armadio. Voglio il mio papà. Lui mi saprebbe dire che cosa devo fare, vi prego...»

Un sasso schiantò la finestra. Jack strillò.

Il sasso colpì il comò. Alcune schegge di vetro schizzarono dalle fessure alla destra e alla sinistra del mobile e si frantumarono sul pavimento.

«Dacci il tuo passeggero, Sloat!»

«Non posso», singhiozzò Richard contorcendosi nella sua coperta.

«Daccelo!» gridò un'altra voce vibrante di ilarità. «Lo riportiamo a Seabrook Island, a Seabrook Island, che è il suo posto, Richard!»

Un altro sasso. Jack si rannicchiò istintivamente, ma anche questa volta la pietra rimbalzò contro il comò. All'esterno c'erano cani che latravano e ringhiavano e ululavano.

«No», bofonchiava Richard nel sonno. «Dov'è il mio papà? Voglio che esca dall'armadio! Vi prego, vi prego, niente più roba da Seabrook Island, vi prego...»

In ginocchio, Jack cominciò a scrollare Richard supplicandolo di svegliarsi, assicurandogli che era un sogno e che si svegliasse, per l'amor del cielo!

«Vi prego vi prego vi prego.» Un coro di voci rauche e disumane si levava dall'esterno simile alla litania dei mostri dell'Isola del dottor Moreau di Wells.

«Svegliati, svegliati, svegliati!» rispose un altro coro.

Ululato di cani.

Una mitraglia di sassi frantumò altro vetro e rimbalzò contro il comò facendolo oscillare.

«PAPÀ È NELL'ARMADIO!» gridò all'improvviso Richard. «PAPÀ VIENI FUORI, TI PREGO VIENI FUORI, HO PAURA!»

«Ti prego ti prego ti prego!»

«Svegliati, svegliati, svegliati!»

Richard agitava le mani.

Altri sassi colpirono il comò. Jack temeva che da un momento all'altro scagliassero nella stanza una pietra abbastanza grande da fracassare l'esile mobile, o quanto meno abbastanza pesante da rovesciarlo.

Fuori ridevano, lanciavano versi e cantavano con quella loro raccapricciante voce da gnomi. E adesso sembrava che mute intere di cani abbaiassero e ululassero.

«PAPÀAAAA...!!» gridò Richard con una voce stridula e agghiacciante.

Jack lo schiaffeggiò.

Gli occhi di Richard si aprirono di scatto. Per qualche istante fissò Jack senza minimamente riconoscerlo, come se il sogno gli avesse cancellato totalmente il raziocinio. Quindi emise un lungo sospiro tremulo.

«Un incubo», si scusò. «Deve essere per colpa della febbre. Era orribile. Ma non mi ricordo bene che cos'era!» aggiunse bruscamente, come per scongiurare una domanda di Jack in proposito.

«Richard, dobbiamo andarcene da qui.»

«Da qui?» Richard lo contemplò come se fosse impazzito. «Non posso, Jack. Ho la febbre a... sarà oltre i trentanove, magari oltre i quaranta. Non...»

«Avrai sì e no una linea di febbre, Richard», lo contraddisse con calma Jack. «Magari neanche quella...»

«Ma brucio!» protestò Richard.

«Ci stanno tirando sassi, Richard.»

«Le allucinazioni non possono tirare sassi, Jack», gli fece notare Richard, come se stesse spiegando un fatto semplice quanto vitale a un ritardato. «Questa è roba da Seabrook Island. Questa...»

Un'altra scarica di sassi arrivò dalla finestra.

«Dacci il tuo passeggero, Sloat!»

«Coraggio, Richard», insisté Jack, issando in piedi l'amico. Uscì con lui in corridoio. Si sentiva tremendamente sconsolato per Richard, forse non tanto quanto era stato per Lupo... ma ci stava arrivando.

«No, sono malato... la febbre... non posso...»

Nuovi tonfi di sassi che colpivano il comò.

Richard strillò e si aggrappò a Jack come se avesse paura di affogare.

Dall'esterno giunsero scoppi di risa. E c'erano cani che ululavano e s'azzuffavano.

Jack vide la faccia di Richard già bianca perdere ulteriormente colore e lo sentì vacillare. Si precipitò a soccorrerlo, ma non riuscì ad afferrarlo prima che crollasse sulla soglia della stanza di Reuel Gardener.

 

5

 

Era un semplice mancamento. Richard si riprese abbastanza in fretta quando Jack gli diede dei pizzicotti fra pollice e indice. Ma si rifiutava di parlare di quello che c'era fuori della Nelson House. Fingeva con se stesso di non sapere a che cosa alludesse Jack.

Avanzarono con cautela verso le scale. Arrivati alla sala comune, Jack vi sbirciò dentro e mandò un sibilo. «Richard, guarda!»

Richard ubbidì di malavoglia. La stanza era stata messa a soqquadro. Seggiole rovesciate. I cuscini del divano squarciati. Il ritratto a olio di Elder Thayer era stato vandalizzato da qualcuno che vi aveva disegnato un paio di corna da diavolo che gli spuntavano dai capelli bianchi, un paio di baffi sotto il naso e un fallo rudimentale fra le gambe inciso con una limetta per unghie o altro attrezzo del genere. Il vetro della bacheca dei trofei era stato fracassato.

Jack non si sentiva molto commosso per l'espressione di incredulo orrore che vide sulla faccia di Richard. In un certo senso Richard avrebbe accettato più facilmente spettrali plotoni di folletti scorrazzanti per i corridoi o draghi librati in volo sul quadrato; ma era evidente che non riusciva a rassegnarsi a questa progressiva erosione della Thayer School, l'istituto che aveva imparato a conoscere e amare e che indubbiamente riteneva nobile e buono, pilastro intangibile di verità a fronte di un mondo dove di nulla ci si poteva fidare per molto tempo... nemmeno di genitori capaci di non uscire più dall'armadio in cui erano entrati.

«Chi è stato?» domandò Richard infuriato. «Sono stati quei balordi», si rispose da sé. «Ecco chi è stato.» Poi guardò Jack e l'espressione del suo viso si trasformò in quella di un nebuloso e inquietante sospetto. «Potrebbero essere colombiani», esclamò all'improvviso. «Potrebbero essere colombiani e questa potrebbe essere una guerra della droga, Jack. Ci hai pensato?»

Jack dovette dominare l'impulso di scoppiare a ridere. Ecco una spiegazione che forse solo Richard Sloat sarebbe stato capace di concepire. Erano i colombiani. La guerra della cocaina si era trasferita alla Thayer School di Springfield, Illinois. Elementare, mio caro Watson; questo problema ha una soluzione al sette e mezzo per cento.

«Tutto è possibile», rispose diplomaticamente. «Diamo un'occhiata di sopra.»

«Perché mai?»

«Mah... forse troviamo qualcun altro», disse Jack. Non che ci credesse davvero, ma era meglio che niente. «Può darsi che ci sia qualcuno nascosto. Qualcuno normale come noi.»

Richard lo contemplò per un istante, poi tornò a esaminare lo sconquasso della sala comune. La sua espressione ridiventò tormentata come a dire: Non vorrei guardare, ma per qualche ragione è come se ci fossi costretto, come se nient'altro mi importasse in questo momento, come quando ti viene da morsicare un limone, o da grattare sulla lavagna con le unghie, o con una forchetta sulla porcellana di un lavandino.

«Il problema della droga sta diventando un problema nazionale», sentenziò nei toni allucinati di un conferenziere. «Giusto la scorsa settimana ho letto sul New Republic un articolo sulla proliferazione della droga. Jack, tutta quella gente che c'è là fuori, potrebbe essere drogata! Potrebbe essere...»

«Andiamo, Richard», lo esortò pacatamente Jack.

«Non so se riesco a salire le scale», osservò Richard con voce debolmente legnosa. «Forse ho la febbre troppo alta per salire le scale.»

«Be', vediamo di che stoffa sono fatti gli studenti della Thayer», lo sfidò Jack guidandolo in quella direzione.

 

6

 

Arrivarono al pianerottolo del primo piano mentre il silenzio quasi sospeso all'interno della Nelson House veniva interrotto nuovamente da suoni e rumori provenienti dall'esterno.

Abbaiare e ringhiare di cani che adesso sembravano essersi raccolti a centinaia. Contemporaneamente si accese uno sguaiato scampanio nella cappella.

Le campane avevano l'effetto di gettare nell'isteria i cani che correvano come forsennati per il quadrato. Si avventavano l'uno contro l'altro, rotolando e ruzzolando sul prato che si era trasformato in un campo incolto invaso dalle erbacce, e azzannavano tutto quello che capitava loro a tiro. Jack ne vide uno attaccare un olmo. Un altro si lanciò sulla statua di Elder Thayer. Quando le sue fauci si chiusero sul solido bronzo, sgorgò sangue da entrambi i lati.

Nauseato, Jack distolse gli occhi. «Andiamo, Richard», disse.

Richard lo seguì abbastanza volentieri.

Il primo piano era stato devastato: mobili rovesciati, finestre infrante, ciuffi e grumi di imbottiture, dischi che erano stati lanciati come frisbee, abiti gettati in ogni dove.

Il secondo piano era denso di vapore e di umido tepore come una foresta tropicale. Nei pressi delle docce, il calore raggiungeva i limiti di una sauna. Qui il vapore di cui avevano incontrato le propaggini sulle scale era opaco e fitto come un banco di nebbia.

«Resta qui», ordinò Jack. «Aspettami.»

«Sì, Jack», rispose serenamente Richard, alzando la voce quanto bastava per farsi udire nello scroscio delle docce aperte. Gli si erano appannati gli occhiali, ma non fece alcun tentativo per pulirseli.

Jack spinse la porta ed entrò. I suoi abiti furono immediatamente impregnati di sudore e di caldo umido. All'interno lo scroscio era assordante. Tutte e venti le docce erano state messe in funzione e tutti i getti erano stati puntati su un cumulo di attrezzature sportive al centro del locale piastrellato. L'acqua vi colava attraverso molto lentamente invadendo piano piano il pavimento. Jack si tolse le scarpe e fece il giro delle docce schivandone i getti sia per bagnarsi il meno possibile, sia per evitare di ustionarsi, visto che, chiunque fosse stato a metterle tutte in funzione, aveva ignorato i rubinetti dell'acqua fredda. Le chiuse tutte, una dopo l'altra. In effetti non c'era alcun motivo per farlo, tanto che si rimproverò di sprecare tempo in manovre così insulse, mentre avrebbe dovuto escogitare un sistema per scappare da lì, dalla Nelson House e dalla Thayer School, prima che calasse la scure.

No, non c'era alcuna ragione, ma forse Richard non era l'unica persona mossa dal desiderio di trovare ordine in mezzo al caos... di creare ordine e mantenerlo.

Uscì nuovamente nel corridoio e non trovò più Richard. «Richard!» Sentiva il suo cuore che cominciava a battere più velocemente.

Nessuna risposta.

«Richard!»

L'aria era pregna di un fastidioso odore di acqua di colonia.

«Richard, dove diavolo ti sei cacciato!»

La mano di Richard gli calò sulla spalla e Jack gridò.

 

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